Le premesse per un film più vicino ai precedenti, misteriosi e raffinati, c’erano tutte: la storia, il regista, il cast, il messaggio, le idee. Eppure qualcosa non ha funzionato nell’ultimo lavoro del regista cileno Alejandro Amenábar, acclamato autore di The others e Mare dentro. Infatti, il suo Agora , un ambizioso film in costume, high-budget (50 milioni di euro), ambientato ad Alessandria d’Egitto nel 391 d.C., che racconta lo straordinario e tragico destino della filosofa Ipazia, si presenta come un film didascalico, a tratti noioso e privo del fascino che ci si poteva, a giusta ragione, attendere. Forse le priorità storiografiche ed il desiderio di onorare i grandiosi impegni produttivi hanno edulcorato alcune scelte registiche, peraltro già impegnative di fronte ad un genere completamente nuovo, conferendo al film un taglio meno originale, se non nel contenuto, certamente nella forma.
“Dopo Mare dentro – ha affermato Amenábar a dialogo con i giornalisti nella bella cornice dell’Ara Pacis – ho deciso di esprimere attraverso il cinema il mio amore per la scienza e l’astronomia: considero infatti quest’ultima come una vera e propria disciplina spirituale, un tentativo da parte dell’uomo di avvicinarsi ad un’entità superiore, a Dio. Volevo fare un film su un periodo di circa 2000 anni, poi mi sono imbattuto nella storia di Ipazia ed ho deciso di raccontarla, mettendola in relazione con gli avvenimenti e con le lotte religiose del tempo, ed evidenziandone soprattutto la valenza sociale e politica”. Fra le donne celebri dell’antichità, Ipazia è considerata certamente una delle più importanti: filosofa e matematica, esponente di spicco della scuola neoplatonica, fu l’inventrice dell’astrolabio, del planisfero e dell’idroscopio. Figlia di Teone, il rettore dell’Università di Alessandria – che le trasmise l’amore per la scienza e per i classici greci, di cui erano entrambi abili commentatori – Ipazia per un lungo periodo fu un personaggio in vista della scena culturale alessandrina, una delle pochissime donne con facoltà di insegnare astronomia e filosofia ai giovani. Nonostante la sua “statura” eccezionale, Ipazia pagò con la vita la sua libertà intellettuale e la sua integrità morale: l’appartenenza al genere femminile non contribuì certo a salvarla. Quando scelse di non abiurare alle sue idee scientifiche, Ipazia fu braccata ed uccisa dai suoi detrattori, in primis il fondamentalista Cirillo che, dopo l’Editto di Teodosio, iniziò a perseguitare ogni cultore e seguace di scienze giudicate considerate pagane. “Agora è la storia di una donna, di una città, di una civiltà, di un pianeta – continua il regista – un luogo dove vorremmo tutti vivere insieme. Giocando a cambiare la prospettiva, abbiamo cercato di mostrare la realtà umana nel contesto di tutte le specie terrestri, guardando gli esseri umani come fossero formiche e la Terra, in un contesto universale, come una piccola sfera fra tante stelle. Per quanto riguarda alcune scelte di regia, molti kolossal di genere hanno ritmi piuttosto lenti: a noi interessava invece che l’azione si svolgesse in maniera rapida, concitata, quasi che la nostra troupe stesse filmando una realtà in divenire, un reportage di eventi in presa diretta. Per questo abbiamo usato il più possibile le scenografie, lavorando al computer solo in una seconda fase, ed abbiamo evitato di trasformare in spettacolo la violenza, limitando gli spargimenti di sangue allo stretto necessario”.
Il film ben sottolinea l’atmosfera di cupo oscurantismo sotto la cui cappa viene schiacciata la florida ed illuminata città di Alessandria (basti pensare al rogo della sua famosa biblioteca, ricordato in un’incalzante scena del film dove Ipazia tenta disperatamente di salvare i testi più importanti), a seguito del graduale ribaltamento dei poteri religiosi, dopo la proclamazione da parte di Costantino del cristianesimo come nuova religione dell’impero romano. Amenábar descrive infatti come i cristiani, prima perseguitati, si vadano trasformando a loro volta in fanatici persecutori dei pagani, rappresentati come difensori di una visione del mondo più laica, razionale e tollerante. Anche molti degli ex-allievi di Ipazia, che da giovani avevano giurato di restare uniti in nome della scienza, entreranno nell’agone politico abiurando alla verità. “Non ho mai avuto intenzione di attaccare i cristiani – sostiene il regista stupito dalle reazioni di certa parte del mondo cattolico – mi definisco ateo ma non escludo la possibilità che esista qualcosa di superiore e sono stato educato secondo i principi del cattolicesimo: il mio film, infatti, difende i principi cristiani della pietà e della compassione, tanto che considero Ipazia come una figura molto vicina a quella di Cristo. Volevo mostrare al pubblico come, dopo 1.700 anni, la storia non sia poi così cambiata: anche oggi la gente continua a combattere e morire per i propri ideali, giusti o sbagliati che siano e ciò che i cristiani facevano all’epoca somiglia al comportamento degli integralisti islamici di oggi. Ho voluto sottolineare questa analogia anche con la mia macchina da presa. Mi sono spesso allontanato dalla Terra per riprenderla dall’alto o vagare nel cielo, come per dire che il mondo in cui viviamo è sempre il medesimo”.
Interessante l’intuizione del film di acconciare con stracci neri e volti scuri la setta dei fanatici cristiani “parabolani”, gratuitamente crudeli, ribaltando così la visione dei ‘talebani’, portatori delle stesse caratteristiche in molte cronache odierne. Anche qui però tutto appare troppo schematico, dominano il bianco e il nero senza grandi spazi per le sfumature, buoni troppo perfetti e cattivi senza speranza. Amenábar, d’altra parte, si dichiara ottimista di natura e ritiene che le nostre civiltà stiano attraversando solo una fase di transizione e non di vera involuzione, e manifesta ancora fiducia nell’Europa e nel progresso, oggi veicolato anche tramite Internet. Fra le frecce nell’arco di questo film c’è lei, Rachel Weisz, brava e convincente (oltre che, ovviamente, bellissima) nel ruolo della spirituale scienziata Ipazia, liberale con gli schiavi e devota agli astri ed ai suoi studi fino al martirio, e questo contribuisce alla godibilità del film.
“Le donne sono spesso state discriminate dalle religioni e giudicate diaboliche – conclude il regista – la condizione di Ipazia, una creatura affascinante che rinunciò a vivere la propria femminilità in nome del sapere, era eccezionale perfino per l’evoluta civiltà ellenistica. Sembra infatti che non amò nessun uomo, considerandosi sposata con il cielo. Ho discusso a lungo di questo suo aspetto con Rachel e ci siamo chiesti se non fosse più accattivante per lo spettatore introdurre una storia d’amore nel film, ma abbiamo deciso di rimanere fedeli alle notizie storiche sul personaggio, rendendo così Ipazia una figura ancor più rivoluzionaria”. Fra i principali interpreti, accanto alla protagonista, Max Minghella, nel ruolo di un Davo piuttosto melenso, innamorato senza speranza di Ipazia, Oscar Isaac nei panni di Oreste e Michael Lonsdale in quelli di Teone, padre della filosofa.