Diamond Island, presentato alla Semaine de la Critique – Cannes 2016 e premiato con il Prix SACD, segue i sogni, le amarezze, la malinconia di Bora (Sobon Nuon), un ragazzino che lascia il villaggio per andare a lavorare come operaio nel lussuoso cantiere di Diamond Island. Quest’isola vicina alla capitale Phnom Penh vuole essere il simbolo del progresso e della modernità, se non altro è l’emblema della globalizzazione guardata con fascinazione e speranza dalle nuove generazioni cambogiane. In questo luogo/non luogo, Bora incontra il fratello maggiore Solei (Cheanick Nov), andato via di casa anni prima e supportato negli studi universitari da uno sponsor americano. Con gli occhi attenti di Bora partecipiamo alle fatiche quotidiane degli amici e colleghi Dy (Mean Korn) e Virak (Samnang Nut) per realizzare il sogno di una vita migliore e ci addentriamo con incanto nella vita notturna e lussuosa di Solei.
Diamond Island incarna lo spirito di una generazione che non riesce o non vuole ricordare il passato, sebbene sia impossibile prescinderne, e cerca piuttosto di tendere verso un futuro poderoso, globale, un futuro in cantiere, in costruzione, che impone rinunce e perdite con la promessa di opportunità allettanti. Il talentuoso Davy Chou, classe ’83, usa la fotografia come griglia per guidarci e confonderci nella percezione di Bora della realtà, nelle sue osservazioni del mondo circostante fatto di sogni disattesi, aspirazioni realizzate, occasioni prese e altre mancate, nel nome della ricerca di nuovi e più felici, forse illusori, approdi.
FV: Nel 2014 hai realizzato il cortometraggio Cambodia 2099. È stato il primo passo verso Diamond Island?
DC: Assolutamente si. A quel tempo avevo appena accantonato la stesura di un lungometraggio e avuto l’intuizione di voler scrivere una nuova storia ambientata a Diamond Island, isola vicina a Phnom Penh dove si costruisce questo centro della modernità in Cambogia. Invece di scrivere, ho deciso di girare prima una sorta di cortometraggio improvvisato, diventato poi Cambodia 2099, per darmi l’ispirazione a realizzare poi Diamond Island.
FV: In Diamond Island passato e presente sono rispettivamente rappresentati dal villaggio rurale e da Diamond Island del titolo. Cosa significano per te questi luoghi?
DC: Rappresentano due mondi che non condividono niente ma coabitano vicini. In particolare, mostrano quanto sia stato veloce lo sviluppo in Cambogia, e quanto un modo di vivere perpetuato per anni stia lentamente scomparendo.
FV: La vita nel villaggio rurale è autentica e dolorosa, quanto accade su Diamond Island appare come l’allucinazione di una globalizzazione brutale. Nel tuo film sembra che la Cambogia sia afflitta da un passato che fa i conti con un presente finto?
DC: La tematica del sogno e dell’illusione è molto importante nel film. Ciò che mi ha portato a girare questo film è la meraviglia che ho potuto osservare sui volti dei giovani cambogiani quando si recavano su Diamond Island, sia per lavorare come operai nei cantieri, come il protagonista del mio film, sia solo per trascorrere una notte in giro con le moto. Questi occhi sognanti e pieni di incanto mi hanno mostrato che quei ragazzi vedevano qualcosa che io non riuscivo a percepire, che quel posto dava loro qualcosa di cui avevano bisogno in questo preciso momento storico in Cambogia, ed io volevo capire cosa vedevano e perché.
FV: Bora è attratto dallo stile di vita di suo fratello, per il quale nutre forte ammirazione e che vive il lato ricco e appariscente di Phnom Penh, ma quando poi si tratta di sentimenti volge lo sguardo alla vita e persone semplici. È forse il simbolo di una generazione?
DC: Ho infatti preso ispirazione da diversi fatti osservati negli ultimi anni trascorsi in Cambogia. Non so se Bora è un simbolo, non credo, ma il film parla dell’attrazione generata dalla rapida modernizzazione e globalizzazione nei giovani cambogiani, e inoltre solleva la domanda sui sacrifici o le perdite necessarie per accedere alla modernità. Personalmente, considero il film anche come un racconto morale.
FV: Hai scelto di lavorare con attori non professionisti. Puoi dirci il perché di questa decisione, il modo in cui avete lavorato assieme e in che misura hanno introdotto una dose di realtà nella storia?
DC: Dall’inizio della lavorazione avevo l’intenzione di lavorare con attori senza esperienza poiché è difficile trovare buoni attori professionisti in Cambogia. È stata una vera sfida, giacché abbiamo speso 4 mesi insieme al mio team andando in giro per Phnom Penh alla ricerca degli attori, ma alla fine è stato così gratificante! Abbiamo incontrato centinaia di giovani, dopodiché ho selezionato il mio cast, guidato dall’intuizione che si sarebbero rivelati dei bravi attori, li abbiamo formati una volta a settimana per tre mesi insieme al mio assistente Meas Sreylin. È stato un lavoro graduale, inizialmente hanno imparato a guardarsi l’un l’altro, a muovere il corpo, esprimere le emozioni… Per me è stato affascinante poterli vedere crescere e avere fiducia in se stessi, e le loro personalità hanno anche influenzato la mia scrittura: ho modificato i personaggi, innanzitutto perché ciò che rivelavano gli attori era a volte molto più interessante di quanto avessi immaginato, e poi perché era più semplice per loro recitare qualcosa di più vicino a loro. Sono molto contento e orgoglioso dei risultati della recitazione nel film, e non vedo l’ora di presentare il film in Cambogia e vedere come sarà accolta la performance degli attori.
FV: Un dualismo – realismo della povertà e iperstilizzazione del benessere – segnano l’estetica del film. Come lo hai ottenuto e messo insieme le due visioni?
DC: In realtà non è proprio così. Non volevo creare una grande differenza nel trattamento di un cosiddetto “mondo povero” in contrapposizione a un “mondo ricco”. Ero piuttosto interessato a cerca di trovare una traslazione audio e visiva della percezione dei personaggi riguardo al mondo circostante. Questi occhi meravigliati di cui parlavo prima. Pertanto, abbiamo lavorato molto sull’estrazione dei colori dall’ambiente, e creato quell’atmosfera attrattiva che rappresenta Diamond Island per i ragazzi che la frequentano, dai luoghi eleganti alle costruzioni incomplete. Se volessimo parlare di stilizzazione nel film, riguarderebbe piuttosto la distinzione tra giorno e notte. Volevo che la notte avesse un senso di onirismo, in cui non si è affatto sicuri di sognare oppure no. Il giorno, anche se rimane colorato, è più realistico, con il sole caldo che illumina i personaggi.
FV: Solei ha uno sponsor, una figura che rimane fuoricampo. In cosa consiste avere uno sponsor?
DC: E’ davvero comune in Cambogia: gli stranieri scelgono di aiutare un bambino e lo supportano finanziariamente, in particolar modo per avere il minimo indispensabile, e per essere in grado di studiare, fino all’università. Si affidano a delle organizzazioni, come le ONG. Ho degli amici che, grazie ai loro sponsor, sono riusciti a studiare nelle migliori università cambogiane, o persino a vivere all’estero. Immagino sia stata l’ispirazione per scrivere la storia sullo sponsor di Solei.
FV: Nel documentario Golden Slumbers hai riscoperto la sconosciuta storia del cinema cambogiano, 15 anni di produzione distrutta nel 1975 dall’arrivo dei Khmer Rouges. La storia che racconti è in qualche modo influenzata dal periodo dei Khmer Rouges?
DC: Non direi che ne è influenzata, perché la mia ispirazione qui viene dall’osservazione della Cambogia di oggi, e da ossessioni personali. Ma è impossibile dimenticare completamente da dove viene la Cambogia e quanto il tragico passato del Paese abbia direttamente influenzato il Paese di oggi. Direi, ad esempio, che l’impressionante amnesia percepita nel parlare con i giovani cambogiani, o persino andando su Diamond Island, è una diretta conseguenza del trauma causato dai Khmer Rouges, e di come il Paese cerchi di affrontare, o dimenticare, tali questioni.
FV: Qual è la situazione attuale del cinema in Cambogia? Hai avuto o hai dei modelli a cui ispirarti?
DC: L’industria cinematografica in Cambogia sta diventando sempre più forte! Negli ultimi anni, i filmmakers cambogiani sono una realtà emergente, soprattutto giovani al loro primo cortometraggio, ma anche registi quarantenni che con successo hanno diretto i loro primi lungometraggi, come ad esempio Kulikar Sotho o Sok Visal. Adesso abbiamo cinema moderni, a differenza di 5 anni fa, si sta affermando il Cambodia International Film Festival, che ogni anno richiama un numero crescente di pubblico. Ho l’impressione che nei prossimi anni sentiremo parlare sempre più del cinema e dei registi cambogiani.
English Version – Interview at Davy Chou, director of Diamond Island
FV: In 2014 you released the short movie Cambodia 2099. Was it the first step to Diamond Island?
DC: Absolutely. At that time I just gave up the writing of a feature film script, and I just had the intuition that I wanted to write a new story which would all take place on Diamond Island, that island very next to Phnom Penh where they are building this hub of modernity in Cambodia. So instead of writing, I decided to shoot first a kind of improvised short film, which became Cambodia 2099, to give me inspiration to write Diamond Island.
FV: In Diamond Island past and present are represented, respectively, by the rural village and the Diamond Island of the title. What these two places mean to you?
DC: It represents two worlds that don’t share anything in common but cohabitates closely. For me it shows especially how fast the development has occurred in Cambodia, and also how a way of living, that was perpetuated for ages, slowly disappears.
FV: Life in the rural village is authentic and woeful, what happens on the Diamond Island looks like an hallucination of a brutal globalization. In your film, Cambodia seems to be wracked by a past to face a fake present?
DC: The thematic of dream and illusion is indeed very important in the film. What makes me want to write and shoot this film, is this look of wonder I could see in all the faces of young Cambodians coming on Diamond Island, whether they were working there as construction workers, as the man character of my film, or whether they were just coming at night on their motos to hang out. Those dreamy eyes of wonder which showed me that those kids were seeing something I couldn’t see, that this place were providing them something they needed at that precise moment of Cambodian history, and I wanted to understand what they were seeing and why.
FV: Bora is attracted by the lifestyle of his admired brother living the rich and ostentatious side of Phnom Penh but when it comes to deep feelings turns his eyes to the simple life and people. Is he a symbol of a generation?
DC: I indeed took as inspirations many things I’ve been observing for the last few years living in Cambodia. I don’t know if Bora is a symbol, I guess not, but the film talks about the attraction this fast modernization and entering in globalization is producing on Cambodian youth, but also raises the question of the sacrifices or the loss one needs to do to access this modernity. So I personally also see the film as a moral tale.
FV: Your actors are all non professional. Can you tell us how you chose them, the way you worked together and in which way they brought a dose of reality in the story?
DC: I wanted since the beginning to work with non experienced actors as it’s hard to find good professional actors in Cambodia. So it was very challenging, as we spent 4 months with my team to ride around Phnom Penh to find the actors, but it was so rewarding! Because we met hundreds of young people, and after I chose my main cast, mainly based in my intuition that they would be able to reveal themselves as actors, we started to train them with my assistant director Meas Sreylin, once a week for 3 months. We went step by step, and they first learn to look at each other, to move their bodies, express their emotions… For me it was fascinating because I could see them growing and taking confidence in themselves, and their personalities also influenced my writing: I changed the characters, first because what the actors revealed to me was sometime much more interesting that what I had imagined, and second because it was easier for the actors to play something close to them. I’m very happy and proud with the result of the acting in the film, and I can’t wait for us to show the film in Cambodia and see how the performance of the actors will be received there.
FV: A dualism– realism of poverty and hyper-stylization of wealth – marks out the aesthetics of the movie. How did you reach it and make the two visions work together?
DC: I wouldn’t see things like that actually. I didn’t want to make a big difference in the treatment of a supposedly “poor world” in opposition to a “rich world”. I was mostly interested to try to find a visual and audio translation of how the characters perceive the world that surrounds them. Again, this eyes of wonder I was talking about. For that reason, we worked a lot on how to extract colors from their environment, and build a feeling that Diamond Island, from the nice areas to the unfinished constructions, represents this attractive world, colourful and full of desires, for the young people hanging out there. If there was a change of stylization in the film, it would be between the days and the nights. I wanted the nights to bring a sense of oneirism, in which we are not sure anymore if we are dreaming or not. And the days, even if they remain colourful, would be more realistic with the heavy sun falling on the characters.
FV: Solei has a ‘sponsor’, a figure who stays outfield. What is actually a sponsor?
DC: It’s actually very common in Cambodia: foreigners would choose and help one kid and sponsor him, mainly to have minimum needs, and to be able to study, until university. They are usually put in touch through organizations, such as NGOs. I have some good friends who, thanks to their sponsors, could study in the best Cambodian universities, or even live abroad today. That was I guess an inspiration to write this sponsor story of Solei.
FV: In your documentary Golden Slumbers you discover the unknown history of Cambodian cinema, a 15 year production destroyed in 1975 by the arrival of the Khmer Rouges. Is the story you tell somehow influenced by the Khmer Rouges period?
DC: I wouldn’t say it’s influenced by the Khmer Rouge, because my inspiration here comes from my observations of today Cambodia, and from personal obsessions. But it’s impossible to totally forget where Cambodia comes from and how the tragic past of the country has a direct influence on how the country is today. I would for example say that the striking amnesia you could feel talking to Cambodian youth today, or even going on Diamond Island, is a direct consequence of the trauma caused by the Khmer Rouge, and on how a country tries to face, or forget, those issues.
FV: How is the cinema situation in Cambodia? Did/do you have any model who inspires you?
DC: Cinema industry in Cambodia is really getting better and better! For the last couple of years, Cambodian filmmakers have emerged, mainly young filmmakers making their first short films, but also directors in their 40s who directed successfully their first features, such as Kulikar Sotho or Sok Visal. We have now modern cinemas, which wasn’t the case 5 years ago, there is a Cambodia International Film Festival that drowns more audience every year, so I kind of feel we will hear more and more about Cambodian films and filmmakers in the next coming years.
Francesca Vantaggiato