Una squallida sala delle torture travestita da stanza degli interrogatori, un sadico psicopatico nei panni di un agente di polizia e due giovani manifestanti caduti, malauguratamente, nelle sue mani ansiose di infliggere sofferenza ed estorcere nomi e informazioni: se si aggiunge qualche minuto di dialoghi con l’aguzzino e la finale fuga verso la libertà dei due ragazzi, si ottiene la scarna ma intensa trama di Stand Up, il nuovo lavoro del regista italiano Giacomo Mantovani prodotto con Cristina Isoli Sandri. Dalla durata di 18 minuti appena, Stand Up non è solo un cortometraggio: è un manifesto di libertà, un grido – univoco e unilaterale – contro ogni forma di violenza, di sopruso o più semplicemente di violazione di diritti.
È ovvio. Un lavoro, di qualsiasi natura, che ha l’onere di veicolare un messaggio del genere, deve prescindere dalla pretesa di farlo con leggerezza o disincanto. E infatti, Stand Up è deliberatamente duro e in un certo senso crudo: anche se non si sofferma su particolari, per così dire, anatomicamente disturbanti, il corto si carica di una tensione psicologica e di un’ostentata crudeltà nelle scene dell’interrogatorio/tortura che, se a un primo sguardo possono sembrare esasperate, dopo un’attenta riflessione sul messaggio sociale del film (e con un piccolo sforzo di immedesimazione) si riscoprono, in realtà, come il modo più efficiente di comunicarlo. E a trasmetterlo nella finzione scenica è, in primo luogo, la protagonista femminile di Stand Up, Sara (Olivia Marei): giovanissima ma sveglia e sempre pronta a cogliere l’attimo, determinata ma anche capace di grande dolcezza e, in alcuni gesti, perfino materna, è lei a prendere in mano la situazione e a rendere possibile la fuga, mentre il suo compagno Eric (Michael Hanratty) resta, praticamente per la durata intera del corto, imprigionato tra eccessi d’ira e paure che gli impediscono di agire come dovrebbe. Una coppia piuttosto atipica, insomma, che in un colpo solo abbatte lo stereotipo dell’eroe – comunemente impersonato da un uomo – e quello della donna mero oggetto sessuale. Più coerente con le aspettative sul suo ruolo è invece il personaggio di Damien (Dean Roberts), l’agente di polizia a dir poco fuori di testa che, alla fine, da cacciatore a preda, resta vittima della sua stessa violenza: sicuramente, il personaggio più caricato e caricaturale del film, simbolo di quanto malsana e pericolosa possa essere l’autorità, se deposta nelle mani sbagliate.
Dedicato a tutti i manifestanti pacifici che hanno subito abusi dalle autorità, Stand Up è un’esortazione a non chinare la testa e a non arrendersi di fronte a nulla quando in ballo c’è la lotta per i diritti fondamentali. È nato dall’esigenza fortemente sentita dal regista di creare un “emblema di resistenza” che fosse libero da etichette e preconcetti, libero di poter raggiungere un pubblico di ogni provenienza, libero da limiti linguistici o geografici (la scelta è infatti ricaduta sull’inglese e su un’ambientazione volutamente non determinata, una sorta di non-luogo che sta per ogni luogo in cui episodi del genere sono accaduti – o potrebbero accadere).
Ma il film non è solo questo, c’è dell’altro. E a comunicarlo allo spettatore sono le ultimissime sequenze del corto, che vedono i due protagonisti, estenuati dalla fuga, riacquisire la loro determinazione e il loro coraggio, e decidere di andare avanti e continuare a lottare per i loro diritti e i loro sogni nonostante la traumatica esperienza appena subita che, a questo punto, si scopre essere metafora non solo dell’abuso e della degenerazione dell’esercizio del potere da parte delle autorità, ma anche degli ostacoli che, sotto forma di conflitti interiori, sanno inibire anche i sognatori più liberi. Quindi, sulle suggestive note di Branden Deal che fanno eco ai passi dei due giovani in fuga, finisce il film. E inizia, noi immaginiamo, il loro personale viaggio verso la realizzazione di tutti i loro sogni e delle loro ambizioni.