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69 Festival di Cannes: Julieta di Pedro Almodóvar (Concorso)

C’è chi è rimasto deluso dall’ultimo film di Pedro Almodóvar, presentato a Cannes nella sezione del concorso ufficiale. Il film non convince del tutto ma commuove ed appaga il senso estetico di chi lo vede, grazie ad una confezione stupenda (immagini, abiti, colori, musica) ed all’interpretazione di attori convincenti

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C’è chi è rimasto deluso dall’ultimo film di Pedro Almodóvar, presentato a Cannes nella sezione del concorso ufficiale, con il titolo Julieta (la prima idea del regista era quello di  titolarlo ‘Silencio’), forse perché non tocca i massimi livelli cui il grande maestro spagnolo ha abituato in passato pubblico e critica, ma rimane pur sempre evidente la cifra stilistica di un autore inconfondibile, nei temi e nella regia. Per scrivere la sceneggiatura, Almodóvar si è ispirato a tre racconti – ‘Chance’, ‘Soon’ e ‘Silence’ – tratti dalla raccolta Runaway (2004) della scrittrice canadese Premio Nobel Alice Munro.

Primo elemento che colpisce, a distanza di tre anni dalla sua ultima pellicola Gli amanti passeggeri, è la ripresa di un angolo visuale prettamente al femminile, dove gli uomini sembrano solo entità e corpi funzionali all’intreccio. Julieta, protagonista assoluta della storia, è interpretata da due attrici diverse che rappresentano due differenti età della sua vita, il cui spartiacque è segnato in maniera netta da un evento tragico ed apparentemente incomprensibile. La bellissima e seducente Adriana Ugarte dà vita a Julieta giovane donna e brillante supplente di letteratura, che negli anni Ottanta conosce per caso sul treno un pescatore, avviando con lui una relazione da cui nascerà la dolce figlia Antía (che in greco significa ‘fiorito’) interpretata, in adolescenza, dalla giovanissima attrice Priscilla Delgado; nella seconda parte del film, la brava Emma Suarèz incarna invece ai giorni nostri la professoressa cinquantacinquenne spenta e malinconica, chiusa da dodici anni in un angosciante e doloroso segreto, che ha perso la speranza di vivere in pienezza e si lascia spegnere a poco a poco, nonostante le premure del suo ignaro compagno. Il mistero di Antía, la figlia amata e perduta, lo sgomento per le sue scelte e per la sua silenziosa scomparsa la perseguitano senza tregua, fino ad un insperato epilogo di rinascita.

La pellicola, che parla dei rapporti fra generazioni, della visceralità fra genitori e figli, della solitudine e dell’amicizia, del fondamentalismo emotivo, è costruita in modo forse poco organico, attraverso il fil rouge di una lunga lettera scritta dalla madre alla figlia, strumento narrativo che crea l’occasione per flash-back e riflessioni personali ad alta voce finalizzate a raccontare una storia complessa, dove assolvono ruoli importanti altre donne – ora malevoli, ora solidali – in un gioco del destino che si dipana tra impotenza e responsabilità. Il senso di colpa che accompagna la protagonista per tutta la sua vita segna il solco di un personaggio vulnerabile e indebolito dal tempo, lontano dalle figure di donne forti e tenaci, passionali e resistenti, descritte in tanti magnifici film di Almodóvar: “Le donne e le madri sono sempre state centrali nei miei film – ha affermato il regista – e mi hanno sempre rappresentato: vitali, generose, irruente. Julieta è invece la protagonista più vulnerabile che abbia mai raccontato, la sua è una resistenza passiva e disperata, poiché si porta dentro un dolore indicibile che la mina come persona”. Il film non convince del tutto ma commuove ed appaga il senso estetico di chi lo vede, grazie ad una confezione stupenda (immagini, abiti, colori, musica) ed all’interpretazione di attori convincenti.

Elisabetta Colla

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