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Interviews

SoundScreen Film Festival: Intervista a Paolo Campana

Dopo la così ricca esperienza rappresentata, a Ravenna, dal SoundScreen Film Festival, abbiamo ripreso contatto con l’autore di Vinylmania, Paolo Campana, per farci raccontare qualche storia in più sul suo stimolante, appassionante documentario.

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In occasione del SoundScreen Film Festival di Ravenna avevamo parlato con un certo entusiasmo di Vinylmania, il documentario dedicato da Paolo Campana al variegato e affascinante universo del vinile. Ma proprio perché il film, un così ricco “contenitore”, ci aveva suggerito una marea di spunti che non era facile comprimere nello spazio, senz’altro ridotto, di una recensione, abbiamo pensato di riprendere il discorso con l’autore. E lo abbiamo fatto a distanza di qualche tempo. Ma con la curiosità intatta nei confronti delle tante piccole storie che Vinylmania raccoglie.

In “Vinylmania”, il tuo documentario presentato a Ravenna dopo la partecipazione a svariati altri eventi, è l’affascinante mondo del vinile al centro di una ricerca, che ha richiesto tempi lunghi facendoti poi spaziare parecchio, a livello di location. Ci potresti raccontare brevemente da dove nasce questa tua passione per i dischi e più in generale per la musica?

Sono caduto nella musica e nel vinile da piccolo, mio padre era un musicista e suonava spesso il pianoforte a casa, mentre mia mamma suonava spesso dischi di musica classica su un vecchio giradischi, li metteva su per svegliarmi al mattino, e ricordo in particolar modo Eine Kline Nacht Muzik di W.A.Mozart, avevo forse 4 anni… Poi ricordo che m’incantavo spesso lunghi minuti a vedere girare i grooves del vinile quando suonava fino a perdermi dentro… Ed è stato come una sorta d’imprinting che mi ha fatto capire più avanti negli anni di aver subito una vera e propria fascinazione ipnotica per i dischi… Ho iniziato a 8 anni con il 45giri dei Buggles, Video Killed The Radio Star, con i Kraftwerk e le colonne sonore, poi ho virato verso il punk e la new-wave, poi la black, la disco, la lounge… Insomma un percorso di continua scoperta ancora in atto adesso. Da bambino non potevo avere tutti i dischi che avrei voluto e quando poi sono cresciuto, soprattutto molto dopo l’adolescenza, ho cominciato a comprare tutto quello che all’epoca mi piaceva o avevo in cassetta, insomma una sorta di appetito da saziare a posteriori. C’è qualcosa di psicanalitico in tutto ciò, ma ora la prendo meno sul serio…

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Sempre a proposito delle coordinate spaziali del documentario, come hai scelto le località, europee e non, in cui hai poi effettuato incontri e riprese? Tutto frutto di amicizie maturate precedentemente, in ambienti musicali, oppure ci sono luoghi e personaggi che si sono aggiunti in corso d’opera?

Le località europee e non le ho scelte per importanza legata al mondo della musica. Londra è sempre stata un po’ la patria della musica europea e la città dove c’è sempre stata un’alta concentrazione di negozi di dischi, così come anche Berlino e poi Praga per l’Est. Ho iniziato a lavorare anni prima di poter finalmente avere un produttore, raccogliendo materiale con la mia telecamera hi-band 100 della Sony. All’epoca non potevo permettermi di viaggiare, così mi appostavo in un negozio o in un club alla fine di un dj set e dopo aver cercato di carpire l’atmosfera del luogo tendevo trappole a DJ famosi e personaggi dell’ambiente musicale per strappare interviste. Ovunque andassi avevo la mia fida camera con me, tanto da non poter più riuscire a frequentare un negozio di dischi liberamente… In questo modo ho conosciuto molte persone con le quali ho creato a volte delle amicizie vere e proprie. Poi quando finalmente è stato possibile partire con la produzione, alcune di queste persone sono state contattate, a loro se ne sono aggiunte di nuove e altre le ho incontrate casualmente nei luoghi in cui finivo, strada facendo. Nel film, a Berlino ho incontrato il dj Jerome Sydenham per caso in un negozio, oppure dopo una corrispondenza durata quasi tre anni sono riuscito finalmente a incontrare, in Giappone, Sanju Chiba, il costruttore del Laser Turntable, il giradischi analogico al laser. Ogni volta era emozionante… La maggior parte degli incontri sono comunque stati frutto di relazioni tenute nel tempo ed è questo forse che li ha resi unici, con uno scambio che è andato oltre la semplice intervista.

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Come è stato confrontarsi con situazioni legate all’Europa Orientale, come Praga ad esempio, dove un tempo la libera circolazione della musica, specie quella di provenienza occidentale, conosceva diversi ostacoli? E hai mai pensato di allargare il discorso a realtà qualche contesto simile, quello russo su tutti?

La storia di Praga e la questione della persecuzione da parte della polizia, compresa quella segreta, verso chi semplicemente voleva dei dischi dei Rolling Stones o magari quelli dei Roxy Music, mi ha molto colpito. Sapevo che quello era il luogo ideale dove avrei trovato delle storie interessanti in questo senso, ma non avrei mai pensato di esserne così colpito. Essere perseguitati per la musica che si ascolta… Nel film Daniel Binder, un venditore di dischi di Praga, racconta di poliziotti che minacciavano i suoi famigliari, che sparavano gas lacrimogeni sui mercatini di dischi… Altre storie più particolari ci sarebbero da raccontare su quanto accadeva nell’allora Unione Sovietica, dove imitavano e stampavano maldestramente su vinile la discomusic, o in Cina, dove ad esempio truccavano le copertine dei dischi per non farle riconoscer alle autorità, o in Indocina con l’arrivo della R’n’r’, e penso che queste sarebbero tutte cose degne di essere raccontate magari seguendo una sorta di ‘fil rouge’. Sarebbe forse interessante fare proprio un film su queste storie. La libertà attraverso la musica è un tema molto forte ancora oggi, soprattutto per ciò che accade in Medioriente o in Africa, con l’estremismo islamico… La libertà di poter aver accesso alla musica porta con sé molte tematiche legate alla contemporaneità. Si, ci ho pensato… chissà?

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In un documentario come questo, prevalentemente incentrato su argomenti musicali, come è stata concepita la colonna sonora?

Esiste una colonna sonora originale ed una di musica aggiuntiva. La musica aggiuntiva, ovvero l’utilizzo di brani pre-esistenti, doveva contestualizzare le singole scene, gli incontri con i personaggi ed era dettata dal fatto che questi erano prevalentemente musicisti o dj che avevano a che fare con quei brani, mentre la colonna sonora originale doveva amalgamare la storia dal punto di vista del viaggio, dell’excursus narrativo, e doveva raccontare il suono del vinile con i suoi segni come sctratch, righe, fruscii o quant’altro. Mi sono così rivolto ad un compositore italo svizzero, un amico che sta a New York, Fa Ventilato, conosciuto più per i suoi progetti tra cui Flora&Fauna, Bingo Palace, o Fackintosh, e tra i primi a lavorare sul concetto di mash-up. Abbiamo lavorato sulla materia cruda del vinile, cercando di renderla, tra una scena e l’altra, altamente simbolica e rappresentativa, ora con rivisitazioni techno, breakbeat, o più classiche, o addirittura ironiche (come un fantomatico frammento che parodia i Beatles senza riprenderli), ma che desse sempre l’idea di musica elaborata a partire da dei possibili sample anche immaginari.

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C’è qualche personaggio, tra quelli incontrati durante i tuoi viaggi, che ricordi con particolare affetto?

Un po’ tutti, sono diventati quasi come una famiglia virtuale… e con alcuni si essi s’è instaurata una viva e sincera amicizia, anche se a distanza. Con Winston Smith, che faceva le copertine dei Dead Kennedys, abbiamo passato tre giorni indimenticabili a San Francisco parlando di tutto ed esplorando posti storici legati al vinile. Il fatto stesso, al di là del film, che parlasse un bellissimo italiano con l’accento toscano, ci ha fatto avvicinare ulteriormente. Con Sanju Chiba, il signore “samurai” del giradischi al laser, settant’anni suonati, si è creato un interessante scambio per cui dopo aver girato siamo finiti a bere birra in un pub di Saitama, nell’hinterland di Tokyo, alle quattro di pomeriggio. Con Philippe Cohen Solal dei Gotan Project, si è consolidata una bella amicizia fatta di stima e confidenza reciproca. Insomma da questo film penso di averne tratto che il vinile, i dischi e la musica più in generale, sono un importante tramite per le relazioni umane al di là della musica stessa. Ecco forse questo è uno dei punti nodali di Vinylmania

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Data la mole del materiale accumulato nel corso del tempo, come si è sviluppato e quanto è stato impegnativo il montaggio del film?

Impegnativo? Oltre l’inverosimile, mi sono ritrovato con più di un centinaio di ore di girato, perso in una matassa di possibili collegamenti con infiniti sviluppi… Quando ho cominciato seriamente a fare l’edizione, a un certo punto ho pensato davvero di impazzire, ma poi ho cercato di razionalizzare e seguire la linea del cuore. Il montaggio eseguito quasi a quattro mani con Andrea Pierri, il mio montatore, è durato diversi mesi. Non poteva certo stare tutto dentro un film di 77 minuti, così ho dovuto compiere, grazie al suo aiuto, delle scelte a volte drastiche in funzione di una narrazione che fosse coerente ma, al tempo stesso, spensierata e fruibile. Per questo l’edizione internazionale doppia in dvd è stata arricchita con quasi 140 minuti di extra e bonus, con ampliamenti dal film e delle mini storie, a volte solo abbozzate, a volte concluse, che dessero in parte giustizia al lavoro fatto e al tempo messo a disposizione dalle persone incontrate, Così è stato per Richie Hatwin, Klaus Fluoride (bassista dei Dead Kennedys), Peter Saville, V. Vale (Re/Search) e altri.

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Sulla nostra rivista, Taxi Drivers, si è parlato del tuo lavoro sia in occasione del SoundScreen Festival a Ravenna, sia per la partecipazione al romano Road to Ruins. Cosa puoi delle esperienze avute a questi e ad altri festival cinematografici?

Tra Road to Ruins a Roma, dov’è stato proiettato per la prima volta il film in Italia, e il SoundScreen, a Ravenna, al momento l’ultimo, ci sono stati tanti altri festival, soprattutto internazionali, e tantissime proiezioni in giro per l’Italia e nel mondo. Partecipare con Vinylmania a uno qualunque di questi eventi, per me è sempre emozionante, perché porti una testimonianza viva del tuo lavoro e poi scopri che molti dopo aver visto il film si sono comprati un giradischi. Penso che i festival oggi servano, così come i negozi di dischi, a fare incontrare le persone e a farle uscire da casa per vivere un’esperienza collettiva reale speciale, quella del cinema è poi meravigliosa, fuori dal rapporto sempre più pervasivo con la rete, che porta a scaricare e fruire quintalate di film e musica nella propria cameretta a volte “in solitaria” senza un senso compiuto. L’esperienza con il mondo del cinema e della musica poi in generale mi ha portato anche a a lavorare attivamente per un festival di cinema a tematiche musicale come Seeyousound, il primo festival internazionale con competizione a tematiche musicali in Italia, che sta crescendo molto. Spero che tutte queste realtà possano trovare una sempre maggiore forza ed indipendenza nel fare circuitare film sempre nuovi e nel creare ponti comuni tra loro e la cultura della musica.

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