Senza mai perderne il controllo, l’enfant prodige Xavier Dolan esaspera il melodramma ed estremizza la recitazione in Juste la fin du monde, un’oppressiva e ora urlata ora taciuta iperstilizzazione di una disfunzione famigliare. Questa volta non è esclusivamente il rapporto con la madre a essere indagato e messo in crisi, il figlio non uccide simbolicamente il genitore (I killed my Mother) e la madre non reagisce in modo coercitivo alle inquietudini violente del figlio (Mommy). L’ansia, l’incomprensione, la collera, la precarietà degli equilibri, l’inadeguatezza nel lasciar fluire le emozioni, i silenzi incolmabili e i monologhi gridati coinvolgono l’intera famiglia. L’incomunicabilità e il disagio relazionale sopraffanno, avviluppano e inghiottono un nucleo famigliare infetto.
Anni fa Anne Dorval (la madre nel sopracitato I Killed my Mother) suggerisce vivamente a Dolan di leggere la pièce teatrale vernacolare It’s Only the End of the World di Jean-Luc Lagarce, consiglio che vede un primo approccio fallimentare e la totale comprensione dell’opera dopo la lavorazione di Mommy.
Juste la fin du monde è la storia di un acclamato scrittore francese che ritorna a casa dopo circa dieci anni di assenza per comunicare alla sua famiglia la sua morte imminente. Dolan chiama a raccolta un cast eccezionale: Gaspard Ulliel recita la parte di Louis, lo scrittore silenzioso, Nathalie Baye la geniale e stravagante madre, Léa Seydoux è la sorella musona e risentita tuttavia piena di ammirazione per il fratello, Vincent Cassel è Antoine, sempre arrabbiato e pungente, Marion Cotillard la cognata remissiva e impacciata. Tutti attendono l’arrivo del famoso Louis e vorrebbero trascorrere una giornata piacevole con lui, intenzione che viene puntualmente disattesa.
La camera divora i personaggi in continui primi piani e lascia il resto fuori dalla scena. Non sappiamo niente di loro, del loro passato, a parte un breve ed onirico flashback di Louis, dei loro rapporti, delle vite attuali, del perché di questa lunga assenza. Probabilmente è l’arrivo di Louis a disorientarli, eccitarli, esasperarli a renderli impreparati al dialogo. O forse è questa generale pazzia ad averlo portato lontano. Nella claustrofobia della famiglia imperano il dramma, l’imbarazzo, l’ansia, logorroici e collerici monologhi. Anche negli scambi a due con Louis – ogni membro ne cerca uno – la comunicazione è univoca, Louis risponde a tutti con un silenzio criptico e un sorriso ancora più eludente e nessuno è in grado di mettere a fuoco l’oggetto della conversazione. Risultato, grida irose e silenzi pesanti assicurano di evitare il confronto con le proprie emozioni e con la persona tanto attesa.
Juste la fin du monde potrebbe essere un incubo di Louis, di cui assumiamo il punto di vista e lo sguardo confuso, un’allucinazione premonitoria e temuta dell’incontro rivelatorio, una scioccante visione di un amore tossico. Nel corso di questa euforica e disastrosa giornata Louis è sempre più provato, sconvolto, consumato dalla schizofrenia generale ma anche dal senso di colpa e dalla paura di irritarli ancora di più. La posizione di Louis è paradossalmente insopportabile e assurda: la comunicazione è la panacea per tutti i mali e allo stesso tempo l’affronto ultimo di un fratello-colpevole che, dopo l’abbandono e la dimenticanza, rientra nelle loro vite da vittima.
In questa commedia-melò nera come la pece – nessuno avrebbe potuto usare meglio la traccia pop dance Dragostea di tei (You want to leave but don’t want to take me) nella scena cult di madre e figlia – l’istituzione ‘famiglia’ è ormai ridotta a brandelli, è luogo malsano, perverso e insanabile. Juste la fin du monde è uno di quei film che divide, respingente e condannato senza appello per alcuni, per altri, come per chi scrive, è un inflessibile melodramma sui rapporti famigliari intenzionalmente recitato e diretto sopra le righe.
Francesca Vantaggiato