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Misure straordinarie

«”Misure” straordinarie è la cronaca vera e straziante di un dramma familiare. Harrison Ford smette i panni Indiana Jones per dedicarsi ad una buona causa».

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Si sa che al cinema niente è impossibile, persino i miracoli, ma nel caso di Misure straordinarie di miracoloso non c’è nulla, perché suoni e immagini che scorrono sul grande schermo prendono forma e sostanza da una storia vera e dall’esperienze umane e medico-scientifiche che comuni mortali hanno messo in campo. Così ci troviamo nuovamente a fare i conti con l’ennesima mirabolante avventura consumata tra un lacrima e un sorriso, fra le asettiche mura di cliniche e laboratori, dove ogni giorno si combatte per salvare vite umane. Scopo nobile senza ombra di dubbio, peccato che i dubbi nascono perché dietro il tentativo di dare nuove speranze alle persone malate c’è, nella stragrande maggioranza dei casi, un groviglio di implicazioni e interessi politico-economici che vanno ben oltre il desiderio di fare un passo in avanti nella ricerca scientifica. Questo non significa fare di tutto un’erba un fascio, ma essere coscienti che anche dietro la più nobile delle cause può celarsi il compromesso. E non bisogna stupirsi di tutto ciò, né storcere la bocca schierandosi dalla parte di chi pratica per mestiere perbenismo e moralismo, perché pur di aiutare qualcuno che soffre, a maggior ragione se in ballo c’è la vita dei propri figli, come nel caso del protagonista della pellicola diretta da Tom Vaughan, allora si è disposti a fare davvero tutto.

Misure straordinarie è la cronaca vera e straziante di un dramma familiare, dal quale è lecito, se non ampliamente prevedibile, aspettarsi un lieto fine in perfetto stile Hollywood. Chi ha letto il romanzo, del quale il film è la più fedele delle trasposizioni, ossia l’intenso e toccante “The Cure: come un padre ha raccolto 100 milioni di dollari – e aggirato l’establishment medico – cercando di salvare i suoi figli” (un titolo che è tutto un programma) della scrittrice e giornalista premio Pulitzer Gaeta Anand, sa a cosa va incontro, e per il resto deve recarsi nella sala più vicina con una buona scorta di fazzolettini al seguito. L’opera terza di Tom Vaughan, dopo una fortunata gavetta nella produzione breve e in quella per il piccolo schermo, seguita dal successo al box office di lungometraggi come Il quiz dell’amore e il recente Notte brava a Las Vegas, mira diretta al cuore dello spettatore, raccontando la storia di John Crowley (interpretato da un bravo Brendan Fraser decisamente fuori forma se si pensa alla fisicità mostrata nella trilogia de La mummia), uomo d’affari disposto a qualsiasi cosa pur di salvare i suoi due figli affetti dalla sindrome di Pompe, una patologia neuromuscolare rara, cronica e debilitante, caratterizzata dal mancato smaltimento del glicogeno, la riserva energetica dei muscoli. A causa del difetto di un enzima, il glicogeno si accumula e danneggia il cuore, i muscoli di gambe e braccia e quelli della respirazione, portando alla morte. Per tentare di salvare la loro vita, il protagonista si mette in contatto con il Dott. Stonehill (un Harrison Ford che, dopo le fatiche dell’ultimo Indiana Jones, pare aver appeso la frusta al chiodo per dedicarsi a film più celebrali e meno muscolari), un brillante scienziato anticonformista che potrebbe aiutarlo a trovare una cura.

Il film segue proprio questa disperata corsa alla sopravvivenza, scegliendo purtroppo l’inevitabile strada del sentimentalismo strappa lacrime, invece di percorrere quella della denuncia nei confronti delle Multinazionali farmaceutiche come in The Constant Gardener di Fernando Meirelles. Misure straordinarie sceglie la via meno rischiosa, limitandosi a mostrare fatti e persone senza puntare il dito. La digressione narrativa legata agli interessi economici delle case farmaceutiche viene risolta, infatti, nella maniera più diplomatica possibile, ossia ridotta ad una semplice sottotraccia trattata con i guanti di velluto, in modo da non sporcarsi le mani prendendo una posizione netta sull’argomento. Lo script, seppur costruito in maniera solida e senza particolari sbavature, anche grazie ad un buon impianto dialogico e ad un discreto sviluppo dei personaggi, tira però un po’ troppo il freno quando gli si presenta l’occasione di puntare più in alto. Il risultato è un classico film biografico che mira ai cuori teneri di padri e madri di famiglia, in bilico permanente sui sentimenti edificanti, senza per fortuna eccedere nella drammaticità e nel patetico. Sa come e quando toccare le corde più sensibili dell’animo umano, anche se non brilla certo per originalità. Resta sobrio e rispettoso, portando sul grande schermo una patologia della quale al cinema e in televisione se ne è parlato solo di rado. Questo è sicuramente l’aspetto più interessante dell’intera operazione, unico merito di un film che commuove ma non convince.

Francesco del Grosso

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