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Shadowrunners di Matteo Fontana e Giovanni Ficetola

Il serial propone una versione della realtà in cui, dietro le rivolte dei riots, ci sia un piano volto a sovvertire l’ordine mondiale. Gli Shadowrunners sono un gruppo di giovani della periferia milanese, facenti parte anche loro di questo piano. Toccherà al commissario Estiarte fermarli – e, nel contempo, risolvere i problemi di coppia con sua moglie

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Sinossi: Il serial propone una versione della realtà in cui, dietro le rivolte dei riots, ci sia un piano volto a sovvertire l’ordine mondiale. Gli Shadowrunners sono un gruppo di giovani della periferia milanese, facenti parte anche loro di questo piano. Toccherà al commissario Estiarte fermarli – e, nel contempo, risolvere i problemi di coppia con sua moglie.

Recensione: La storia poteva essere carina… se fosse stata ben sviluppata con un minimo di criterio. Il serial è composto da un totale di sette episodi. Quelli in cui succede qualcosa di vagamente attinente alla sinossi sono meno della metà. Struttura. Questo manca alla serie. Esiste un paradigma ben preciso per scrivere una storia. Non è un’opzione, è una cosa che tutti seguono. Da Hollywood alla più disastrata produzione dello Sri Lanka. Gli unici che possono uscire da questo paradigma sono persone che ne hanno compreso l’esatto funzionamento e possono giocarci. Tipo Sorrentino.

La struttura di una storia. Questo paradigma deve essere applicato anche “in grande”, lungo tutta la trama orizzontale di una serie.

La storia risulta sbilanciata. Là dove dovrebbe esserci un’alternanza gradevole tra trama orizzontale e vita dei personaggi c’è solo… caos.

Quasi tutti gli episodi vengono usati per “entrare” nella mente dei personaggi. Far affezionare lo spettatore alle disgrazie dei poveracci che sta guardando di solito funziona… se, ripeto, la cosa è fatta con criterio. Per potersi affezionare ad un personaggio serve che abbia una caratterizzazione ben precisa, una sua psicologia. Shadowrunners è la fiera del cliché. Ragazzi di strada, del ghetto, tutti “la scuola è la strada, studiare non serve, la violenza genera rispetto” eccetera. Evoluzione? Nessuna. Approfondimento? Non se ne parla. Nei numerosi e inutili cripto-eroici-filo-tarantiniani monologhi, i personaggi parlano di loro stessi. Li sentiamo dire “io sono quello violento” e “io sono quello intelligente”, ma per quanto riguarda l’azione, tutti fanno la stessa cosa. Cioè andare in giro a bere e a prendere pugni la gente. Sono tutti uguali!

L’arco narrativo di Estiarte sembrava promettente. Nell’episodio cinque il commissario viene lasciato dalla  moglie. Nell’episodio seguente la moglie parla dei suoi gravissimi (sì, sono sarcastico) problemi esistenziali. Nell’episodio sette i due sono già tornati assieme. Cosa!? Come!? Non ci è dato saperlo.

Avete presente quando finito di vedere qualcosa pensate “e quindi”? Ecco. Questa è la domanda che mi sono posto per tutta la visione della serie. Ogni episodio dovrebbe chiudersi con una trovata “forte”, che invogli lo spettatore a continuare la visione. Secondo voi, questa Trovata Forte, è presente? Assolutamente no!

I dialoghi sono terribili. Didascalici e inutilmente pieni di parolacce. Le parolacce vanno sapute usare. Dosate. Ho fatto un giochino: quando, nel primo episodio, uno dei protagonisti inizia il proprio monologo cripto-eroico, ho contato le parolacce. Dal minuto 7.41 al 9.41 la parola “cazzo” viene ripetuta sei volte. Una parola, se ripetuta troppo spesso, perde di significato e fallisce nell’impossibile pretesa degli autori di caratterizzare personaggi piatti. Il pensiero “ehi, questi parlano proprio come ragazzi del ghetto” è stato sostituito da “ehi, questi avrebbero proprio bisogno di un buon script-editor”.

Gli Shadowrunners riescono nel loro intento: sostituirsi con personalità di rilievo per ottenere quello che vogliono. Peccato che non sappiamo a) come hanno fatto e b) cosa diavolo vogliano. Certo, “far risorgere il mondo dalle ceneri” eccetera. Ma che vuol dire? Qual è il loro programma con esattezza? Troppi… troppi buchi di sceneggiatura, nati probabilmente dall’erronea convinzione popolare che “un regista possa fare anche lo sceneggiatore”. La funzionale convivenza di queste due professioni in un solo uomo è molto rara. Woody Allen, per esempio.

Recitazione. Onde evitare imprecisioni, ho chiesto a un’attrice professionista (molto brava e decisamente sotto-pagata) di darmi una mano nell’analisi. Riporto, praticamente pari, il suo commento:

“Non ci sono intenzioni. Le frasi sono atone. I flussi di pensieri dei protagonisti hanno la stessa valenza emozionale che si dà alla lettura della lista della spesa. Il ragazzo del primo episodio deve essere particolarmente confuso, dato che un po’ parla in dizione, un po’ con accento milanese. Nei dialoghi non c’è un minimo di ascolto… gli attori danno le battute come se non si aspettassero una risposta. Chiudono le frasi invece di lasciarle aperte. Le frasi chiuse, a meno che non siamo ordini o indicazioni, non esistono nel parlato comune. I personaggi di Shadowrunners usano solo frasi chiuse. Quindi finte”.

Regia. Le inquadrature non sono granché e il montaggio, specie nelle scene d’azione, è lento. Non lento in senso buono, lento come “noioso”. La color correction è troppo aggressiva e altera tutti i colori, i neri friggono, i pochi sky replacement sono pessimi…

Il linguaggio scelto non è chiaro… ci sono Voice Over, interviste ai personaggi come se qualcuno stesse realizzando un documentario… una grande confusione. Gli inserti delle sommosse vengono usati senza uno scopo apparente. I personaggi parlano dei fatti loro e passano le immagini dei riots. Riempitivi, probabilmente.

Le citazioni del cinema di genere americano abbondano. Personalmente l’ho trovata una cosa irritante. Più che altro perché so una cosa che, apparentemente, molte altre persone non sanno: non siamo in America! Quindi vorrei proprio sapere perché il titolo di una serie ambientata a Milano deve essere in inglese. Perché i titoli degli episodi sono in inglese? Perché ci sono solo canzoni in inglese? Chissà se i diritti sono stati pagati.

Non ci siamo. Su tutta la linea.

Ah, la coreografia dei combattimenti non è male.

Oscar Francioso

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