Ambientato nella Phom Penh dei nostri giorni, Diamond Island di Davy Chou è la storia di Bora, un ragazzino che dalle campagne all’interno del Paese arriva nella capitale per lavorare come muratore alla costruzione del complesso edilizio di lusso Diamond Island. I ragazzi che lavorano insieme a lui sognano una vita migliore, magari di vivere un giorno proprio in uno di quegli appartamenti che stanno costruendo.
L’esordio di Davy Chou, regista di Ritorno a Seoul, ricorda gli ipnotici film sulla gioventù di Hou Hsiao-hsien e Tsai Ming-liang.
Avvolto nell’elegante e onnipresente bagliore dei neon, Diamond Island esamina l’ipermodernità e la disillusione adolescenziale.
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Diamond Island la trama
Nella capitale, Bora ritrova suo fratello Solei, che aveva lasciato la casa paterna cinque anni prima e di cui non aveva avuto molte notizie; Solei è ben integrato in città, è elegante e frequenta persone benestanti e ha uno “sponsor” che vive negli Stati Uniti “che ama la Cambogia” e che gli paga gli studi. Solei accoglie Bora e gli chiede di non dire a nessuno del loro incontro; si intuiscono velatamente le ragioni della fuga di Solei dal suo villaggio natale, che anche se non vengono espresse apertamente, sembrano riferirsi al fatto che il ragazzo sia omosessuale.
Quello che traspare dalla malinconia del protagonista è il dispiacere per quanto accade a Virak e Dy, due dei ragazzi che lavorano insieme a lui al cantiere; Virak ha tentato la strada della Malesia, dove qualcuno gli aveva offerto condizioni di lavoro e di vita migliori, mentre Dy perde l’uso delle gambe in un incidente sul lavoro. A Bora le cose vanno meglio: grazie a suo fratello inizia a vivere una vita decisamente più agiata, che gli apre nuove possibilità. Eppure in un paese così grande, con un divario sociale ed economico tra città e campagna, tutto sembra affidato al caso, e quindi ancora più vacuo e precario. Bora e Solei hanno migliorato le condizioni sociali da cui provenivano, ma soltanto perché Solei aveva incontrato e continua ad avere uno “sponsor”, qualcuno che lo sovvenziona finanziariamente e che gli promette inizialmente di farlo andare a vivere negli Stati Uniti, “dove tutto è possibile”.
Quando Solei propone a Bora di andare insieme a lui e successivamente gli dice che lo sponsor ha cambiato i suoi piani, è ancora più evidente quanto le vite di coloro che nascono nel “Sud del mondo” siano legate al caso, e ai capricci dei loro benefattori. E questo nello sguardo intenso di Bora e in quello di suo fratello è sempre presente; nessuno dei due riesce a farsi prendere dal fragore e dalle luci della città, se Bora all’inizio è un po’ smarrito, Solei è disincantato e sa bene che tutto può svanire, ma resta sempre attaccato alle persone che contano ed esorta suo fratello a fare altrettanto.
La fotografia è molto delicata, tenue, come i toni che attraversano il film e che concedono allo spettatore un viaggio di un paio d’ore in uno dei paesi del Sud Est asiatico, straziato fino a trentacinque anni fa da una guerra cruenta e da un regime dispotico, che oggi si divide ancora tra la campagna dell’agricoltura di sussistenza e la città dei quartieri residenziali di lusso.
Anna Quaranta