In anteprima mondiale, Paul Schrader presenta il suo ultimo lavoro a Cannes al pubblico della Quinzaine, accompagnato da William Dafoe, co-protagonista insieme a Nicholas Cage. Scritto da Matthew Wilder, su adattamento dell’omonimo romanzo di Ed Bunker, che era ambientato negli anni Novanta, Dog Eat Dog è la storia di tre uomini usciti dal carcere e che tentano di rifarsi una vita nell’America dei nostri giorni (che molto somiglia all’America che sta per cadere in mano al repubblicano Donald Trump).
Troy (Nicholas Cage), Mad Dog (William Defoe) e Diesel (Christopher Matthew Cook) si uniscono per cercare di mettere a punto un’operazione che gli procuri il capitale per ripartire da zero; accettano un “lavoretto” con la promessa di parecchi soldi: rapire il figlio di un tizio molto ricco per conto di un suo nemico. L’operazione frutterebbe così il compenso per il rapimento, più una parte del riscatto. Qualche cosa va storto, perché per errore Troy fa fuori il padre del ragazzino. La violenza e il sangue sono serviti, ma la cosa divertente (perché il film è molto divertente ed esilarante) e inquietante al tempo stesso è che il tipo viene ucciso perché aveva i tratti latini di un messicano, e quindi secondo Troy avrebbe dovuto necessariamente essere un inserviente. Da questo episodio partono una serie di vicissitudini che fanno perdere di vista lo scopo iniziale dei tre protagonisti, forse intenzionalmente, e che generano una dopo l’altra sequenze di violenza e sangue che, per ammissione dello stesso Schrader, si ispirano a Tarantino, a Scorsese e ai film di Humphrey Bogart, di cui il personaggio di Troy è letteralmente appassionato.
Cineasta poliedrico e di lungo corso, autore tra le altre cose della sceneggiatura di Taxi Driver di Martin Scorsese e regista di American Gigolò, Schrader mette in scena una Commedia dell’America di oggi, e tra sparatorie e sangue inserisce dettagli all’apparenza divertenti ma che fanno pensare. Ne è un esempio il paratesto, affidato alle notizie provenienti dalla televisione, i commenti della gente che partecipa ai talk show (i poliziotti “hanno il permesso di uccidere i negri”), i predicatori che girano armati; è un’America che vorrebbe luccicare ma che dentro è marcia e violenta e che non offre alcuna possibilità a chi ha sbagliato, ha pagato con la galera e ha deciso di ricominciare.
È un film che può essere letto su più livelli: quello più “superficiale”, che è la storia messa in scena, fatta di pallottole scazzottate e battute divertenti; una lettura più profonda la offrono i protagonisti, smarriti in un sistema che non li vuole e che fa in modo, come per una legge naturale, che si facciano fuori l’uno con l’altro (cane-mangia-cane); un terzo grado di analisi è offerto dalla cornice, le case colorate di rosa, i Diners in stile anni Cinquanta, un mondo all’apparenza perfetto dove le persone “normali” ben integrate nella società sembrano avere dei buoni sentimenti, ma alla fine nascondono la pistola nei luoghi più impensati, per difendere a tutti i costi quel modello di vita al di fuori del quale non sarebbero niente e nessuno.
Anna Quaranta