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69 Festival di Cannes: La pazza gioia di Paolo Virzì

Poesia, dramma e sorriso si fondono in un’originale sintesi nel film La pazza gioia, diretto dal regista toscano Paolo Virzì, e presentato con grande successo (10 minuti di applausi!) alla Quinzaine des Realizateurs 2016, che ha selezionato quest’anno le opere di altri due registi italiani, Sweet Dreams di Marco Bellocchio e Fiore di Claudio Giovannesi

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Sinossi: Beatrice Morandini Valdirana è una chiacchierona istrionica, sedicente contessa e a suo dire in intimità coi potenti della Terra. Donatella Morelli è una giovane donna tatuata, fragile e silenziosa, che custodisce un doloroso segreto. Sono tutte e due ospiti di una comunità terapeutica per donne con disturbi mentali, entrambi classificate come socialmente pericolose. Il film racconta la loro imprevedibile amicizia, che porterà ad una fuga strampalata e toccante, alla ricerca di un po’ di felicità in quel manicomio a cielo aperto che è il mondo dei sani.

Recensione: Poesia, dramma e sorriso si fondono in un’originale sintesi nel film La pazza gioia, diretto dal regista toscano Paolo Virzì, e presentato con grande successo (10 minuti di applausi!) alla Quinzaine des Realizateurs 2016, che ha selezionato quest’anno le opere di altri due registi italiani, Sweet Dreams di Marco Bellocchio e Fiore di Claudio Giovannesi. L’uscita del film è stata posticipata ad hoc in Italia, proprio dopo la notizia, graditissima, della selezione al Festival: “Essere presi a Cannes è stato un piacere ma anche una sorpresa – ha commentato Virzì – la lettera del Festival ci chiedeva il film in première mondiale e così abbiamo cambiato in corsa i programmi”. Protagoniste assolute dell’opera, ambientata in una comunità di recupero per donne con problemi psichici, sono le interpreti femminili, prima fra tutte la straordinaria Valeria Bruni Tedeschi, in stato di grazia nel ruolo di una signora bene un po’ svitata e iperattiva, seguita da Micaela Ramazzotti, misurata e ben diretta come ragazza di borgata con una tragica storia alle spalle, Valentina Carnelutti nel ruolo della psicologa ‘tosta e pura’, pronta a lottare per le sue pazienti, Anna Galiena – che mostra senza inibizioni i segni del tempo – nel ruolo di una madre triste e inaridita, ed infine tutte le pazienti autentiche nel ruolo di se stesse, che suggellano visivamente quel lirismo e quelle suggestioni già stilizzati nello script.

La pellicola, infatti, creatura nata dal matrimonio professionale (e dall’antica amicizia) tra il regista e sceneggiatore toscano Paolo Virzì (Ovosodo, Tutta la vita davanti, Il capitale umano, La prima cosa bella) e la regista e sceneggiatrice Francesca Archibugi (Mignon è partita, Il grande cocomero, L’albero delle pere, Il nome del figlio), risente fortemente della doppia impronta stilistica: se Virzì riesce, con la consueta e colorita energia a raccontare la società complessa che ci circonda (in questo caso il mondo del disturbo mentale e  della presunta normalità) e a dirigere attrici ed attori con grande capacità narrativa, il tocco della Archibugi è personalissimo nel disegnare il disagio e la complessità dei personaggi femminili entrando profondamente nel loro intimo, con delicatezza ed incisività. Da qui scaturisce l’equilibrio e la godibilità di un film davvero ben riuscito, nella forma e nella sostanza, che parla di psicopatologia della vita di tutti i giorni, cercando di non creare una demarcazione netta tra la linea della pazzia e quella della ‘normalità’, inno alla libertà ed all’accettazione di ogni diversità come dono e ricchezza.

Le due protagoniste principali, infatti, l’inarrestabile Beatrice Morandini Valdirana (Valeria Bruni Tedeschi), contessa decaduta, millantatrice impenitente di conoscenze altolocate, ossessivamente in cerca di eleganza e privilegi, e la fragile ex-cubista tatuata e solitaria Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti), profondamente ferita dalla vita, si incontrano per caso in una comunità terapeutica per donne con disturbi mentali, entrambe sottoposte a misure giudiziarie. Fra le due imprevedibili e diversissime creature nascerà un’inattesa amicizia ed uno spregiudicato sodalizio che le condurrà ad aprirsi l’una all’altra e ad allontanarsi insieme per qualche giorno dalla loro ‘prigione’, Beatrice a caccia di avventura ed emozioni forti, Donatella sulle tracce del figlio che le è stato strappato e dato in adozione.

Tra lacrime (sulla scena e in sala), euforia, commozione e situazioni surreali, l’opera evidenzia la profonda verità ed umanità del verso “gioia e dolore hanno il confine incerto”, tratto dalla bellissima Ave Maria di Fabrizio De André (La Buona Novella, 1970), cantata nel film dagli animatori di una messa ‘alternativa’, celebrata all’interno della comunità. Il mondo reale, sembra concludere il regista, è pieno di follia e ciò non deve spaventare: “Spesso le persone interessanti, da raccontare, sono quelle fuori degli stereotipi, quelle che sbagliano: non bisogna aver paura dei matti, ma di quelli che ne hanno paura”. Le musiche originali di Carlo Virzì (fratello del regista), la struggente canzone Senza Fine di Gino Paoli e le belle location in terra toscana completano una pellicola capace di far ridere e piangere al tempo stesso, come si conviene alla miglior arte del cinema.

Elisabetta Colla

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