Ne La Danza de la Realidad, presentato nella Quinzaine nel 2013, Jodorowsky riviveva tra visioni e realtà la sua infanzia fino al momento della partenza dal piccolo paese di Tocopilla verso la capitale cilena. Poesia sin fin riprende la narrazione psicomagica dall’abbandono del villaggio natale e si chiude con una nuova dipartita, questa volta per la Francia. Se con La Danza de la Realidad Jodorowsky riempiva di colore i ricordi della sua infanzia, il film presentato quest’anno ancora una volta nella Quinzaine ripercorre gli anni in cui “Alejandrito” spezza i legami famigliari per imboccare la sua strada e vivere da poeta.
Alejandro si accanisce veemente contro un albero nel giardino della nonna materna per abbatterlo, è il momento di metaforica rottura con il proprio albero genealogico, dal cui ha inizio la rivoluzione e la scoperta di sé lontano dalla famiglia e dalle sue imposizioni e follie. Sono gli anni ’40 – ’50 quando il ventenne poeta (interpretato dal figlio Adan Jodorowsky) sperimenta l’amore, l’amicizia, l’arte, la poesia e la vita. Si innamora di una poetessa che somiglia alla madre ed è interpretata dalla stessa attrice, Pamela Flores, dettaglio importante e corroborante di una edipica trasfigurazione materna nella figura uguale-altro dell’amante. Vive la poesia come atto, come autorealizzazione e affermazione dei suoi ideali in conflitto con il padre (Brontis Jodorowsky) e i suoi affetti. La vita in sé è poesia, i suoi amici, ciascuno con una dote o perlomeno aspirazione artistica, lo sono, le camminate in città secondo una linea retta attraverso case e parcheggi con divieto pedonale, perché i poeti non sono obbligati a seguire nessuna convenzione, sono un atto creativo libero e quindi poetico. Poesia sin fin, così come lo era anche La Danza de la Realidad, è soprattutto guarigione, è un processo di rivisitazione catartica del passato proteso verso la riconciliazione con esso e con i luoghi e le persone – la famiglia e il padre in primis – che lo abitavano. Il poeta in procinto di imbarcarsi, perciò, non può non affrontare il padre e confrontarsi con lui in un pacificante incontro ultimo, guidato da un regista che con disinvoltura è ora dietro e ora davanti la macchina da presa.
Il cinema come arte e non intrattenimento, come terapia incentrata sull’opera e non sui risultati (o profitto) è l’approccio del regista cileno, per il quale fare (e partecipare al) cinema è un atto necessario di salvezza dai propri traumi. Nelle parole del regista, questo accade a lui, alla sua famiglia – non a caso sono i due figli, anche loro animati dai propri conflitti, a interpretare lo stesso Jodorowsky e il padre – e auspicabilmente anche a noi che guardiamo e abbracciamo la sua poetica. Si spera in un pubblico disposto a lasciarsi scuotere dalla visione anziché che in cerca di evasione.
La messa in scena è fedele all’idea dell’arte di Jodorowsky. Un film, per definizione, è rappresentazione ed elaborazione artefatta del reale, non il reale stesso. Ben consapevole di ciò, Jodorowsky si rivolge allo spettatore in tutta onestà, ripudiando l’inganno. A distanza di decenni i luoghi dell’infanzia non sono più gli stessi, e infatti all’inizio del viaggio Jodorowsky ricopre i muri a lui tanto familiari con foto d’epoca, prima di riportarci indietro nel passato. La scena è invasa da ninja – così li definisce, pensando al teatro Kabuki – della scena, che spostano gli oggetti a seconda delle esigenze dei personaggi. Inoltre, la messa in scena è spesso interrotta dalle apparizioni di Jodorowsky, pronto a intervenire nel racconto per aiutare il sé del passato a diventare l’uomo che è nel presente, pieno d’amore per la vita.
Perché le immagini-visioni di Jodorowsky non sono e non aspirano ad aderire fedelmente alla realtà, sono piuttosto una sua raffigurazione magica e curativa.
Francesca Vantaggiato