Sinossi: Il dottor Omalu è un patologo intelligentissimo. Un giorno gli capita di dover sezionare Mike Webster, ex-giocatore di football morto suicida. Omalu si accorge che qualcosa non va nel cervello dell’uomo. Fa gli esami del caso e scopre una nuova malattia, che chiama CTE (encefalopatia cronica traumatica), causata proprio dal football. La NFL (la maggiore lega professionistica di football americano) ce la metterà tutta per impedire al dottore di dire la verità, che non gioverebbe agli affari.
Recensione: Peter Landesman è un regista e sceneggiatore semi-sconosciuto. Nel 2013 scrive e dirige il fallimentare Parkland. Non contento, ci riprova nel 2015 con Zona d’ombra (Concussion, 2015). Entrambi i film sono basati su storie vere ed entrambi sono orribili. Sembra che alcuni registi, Landesman incluso, vivano nell’erronea convinzione che scrivere dopo i titoli di testa “ispirato a una storia vera” alzi automaticamente il tono del film. Scrivere di un film basato su una storia vera è sempre un problema. Non è facile far capire che le critiche rivolte al film sono, appunto, rivolte al film stesso e non ai personaggi che l’hanno ispirato. Generalmente, quando un brutto film è ispirato ad una storia vera, il fatto che sia ispirato ad una storia vera viene usato come scusa per giustificare la superficialità della trama. Parafrasando, Syd Field ha detto: “quando scrivete un film basato su una storia vera, dimenticate la realtà, che non è drammatizzabile”.
Cinematograficamente parlando, la realtà ha una struttura debole. Se la realtà non viene correttamente drammatizzata, una storia vera è per forza debole. Ultimamente il mondo è appestato da film basati su storie vere. Sono bei film? No. Perché gli sceneggiatori hanno dimenticato il primo comandamento di Field.
A livello di pura sceneggiatura, tutti i “pezzi” sono dove dovrebbero essere. Questo però non li rende funzionanti. Nel primo atto abbiamo l’introduzione dei personaggi. Il primo punto di svolta è rappresentato dal suicidio di “Iron” Mike. Il punto centrale è la pubblicazione della tesi del dottor Omalu. In un film il protagonista deve “vincere” fino a metà, per poi “perdere” fino al secondo punto di svolta. Quindi, dopo il punto centrale, l’NFL mette i bastoni tra le ruote al dottore e lo costringe a migrare in California. Lì, secondo punto di svolta, la NFL gli dà ascolto. Dopo tre anni. Terzo atto, Omalu torna indietro e dà il ben servito a tutti. Le tempistiche e i punti chiave ci sono. Ma non ne funziona neppure uno. Nel primo atto vengono presentati i personaggi, è vero, ma questo avviene nel modo più didascalico possibile. Omalu è in tribunale perché fa da consulente ad un caso. Il giudice gli chiede “chi sei?” e lui risponde. “Show don’t tell” vi dice nulla?
Il primo punto di svolta deve essere ben costruito, perché è quello che porta il personaggio a fare qualcosa che, altrimenti, farebbe mai. Senza il primo punto di svolta, il personaggio continuerebbe imperterrito nella propria esistenza, per questo deve essere qualcosa di “forte”, qualcosa che letteralmente lo strappi dalla sua routine. Omalu seziona il cervello di Mike e capisce che qualcosa non va. Questo è il suo punto di svolta. Solo che tutto avviene in maniera blanda. Lo spettatore non può provare interesse per quello che sta succedendo a Omalu perché tutto è così scontato e didascalico da diventare prevedibile.
Tra il primo e il secondo atto si sviluppa una delle storie d’amore più inutili della storia del cinema. Quella tra il dottore e l’immigrata che ospita. I due sembra che non si sopportino. Non i personaggi, proprio gli attori. Sono sempre distaccati e si guardano come a dire “no, sul serio?”. Il film non mostra niente dei due. Né cos’hanno in comune, né lo svilupparsi della loro storia d’amore. Non si tratta nemmeno di un colpi di fulmine, perché il colpo di fulmine ha una struttura narrativa precisa. Questa è solo una storia scritta male. Lei va a vivere da lui, parlano un po’, vanno a ballare, fanno sesso. A metà della prima parte del secondo atto, Omalu dice “ho comprato una casa, vuoi sposarmi?” e lei risponde “Se vuoi sposarmi, io ti sposo”. Sembrano due assistenti virtuali che si parlano. Uno è Cortana, l’altra è Siri.
Nella seconda parte del secondo atto, la vita del dottore dovrebbe andare a pezzi. La NFL gli rovina la carriera, i federali arrestano il suo mentore, suo figlio muore. Tutto dovrebbe essere terribile, ma non lo è. Se i personaggi sono costruiti male, non c’è immedesimazione da parte dello spettatore. In questo film i personaggi sono costruiti talmente male che, quando il figlio di Omalu muore, la cosa passa inosservata. La “coppia” non ha mai parlato di avere figli. Non sappiamo cosa provino in merito alla paternità o alla maternità. Semplicemente, lei ad un certo punto è incinta. Scena successiva: lei si tiene la pancia perché ha male. Dieci minuti dopo il bambino è morto. Dieci minuti è il tempo che intercorre tra quando scopriamo che lei è gravida a quando lei perde il bambino. In totale, i minuti in cui effettivamente la vediamo col pancione sono molto meno.
Questa è una di quelle sceneggiature in cui tutto sembra finto. I dialoghi sono didascalici e i personaggi buttati lì per assolvere esclusivamente la loro funzione. Uno di quei film confezionati apposta per far piangere. La scena in cui muore il bambino, ad esempio… mancava solo “PIANGETE” scritto in sovrimpressione. Il terzo atto è pessimo. Omalu fa il classico monologo davanti ad una platea di persone. Un monologo talmente lungo e noioso che non vedi l’ora che finisca.
Non ho nulla contro il vero dottor Omalu. Ma il dottor Omalu del film è riuscito a detronizzare Patch Adams nella mia personale classifica dei 10 personaggi più irritanti della storia del cinema. Omalu è troppo buono. Buono con la B maiuscola. È giusto, corretto, rigoroso, paziente, intelligente. Se Robin Williams fosse stato di colore – e se non guardasse le margherite dalla parte delle radici – la parte sarebbe andata di certo a lui. La bontà di Omalu rende tutto irritante perché è troppo buono per essere vero! Questo porta la sceneggiatura a una sgradevole via di mezzo in cui la storia è sì romanzata, ma non quanto basta per renderla un buon film. L’irritazione che causa Omalu è direttamente proporzionale alla fastidiosità del commento musicale… un toccante crescendo di violini che sembrano partoriti da un Alan Silvestri sotto saccarosio.
Il comparto tecnico non è niente di fenomenale. Regia e fotografia fanno il loro lavoro senza dire niente di che, in modo assolutamente anonimo. Per una qualche ragione, però, sembra che tutti gli attori abbiano una pellicola di plastica di faccia. Questo è molto irritante. Specie perché Will Smith sembra Laurence Fishburne, in alcune inquadrature.
È impossibile non parlare della prosopopea propagandistica che fa il film sulla società statunitense. Volevano raccontare una storia vera? Beh, dove sono gli obesi? Il film racconta del solito vecchio sogno americano che non esiste. Tutti sono o molto buoni o cattivi. Peccato che solo quelli buoni, in questo film, vengano definiti Americani. Il che, per estensione, fa del popolo americano un popolo buono. È da quando è nato il cinema che gli americani provano a convincerci della loro bontà con film del genere. Ormai non ci crede più nessuno e quelli che ancora ci credono hanno dei problemi. Parafraso: nel film Omalu dice: “Ho fatto tutto questo e non sono nemmeno americano” e qualcuno gli risponde “questo fa di te un vero americano”. Capito il messaggio del film? Se sei buono, sei americano. Giorgio Gaber spiega molto bene il concetto.
Zona d’ombra è stupido, arrogante, propagandistico, scritto male, girato e recitato in modo anonimo. Non lo consiglierei nemmeno per farsi quattro risate. Infine: i grandi discorsi sul football. Nel film si parla di “poesia del football”. Ora, forse il mio problema è proprio essere europeo – o cattivo, secondo la logica del film – ma di poesia in gente che si prende a testate non ne vedo proprio.
Oscar Francioso