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Film da Vedere

Il sale della terra: dalla rappresentazione dell’orrore all’innocenza dello sguardo

Il sale della terra (The Salt of the Earth) è un documentario del 2014 diretto da Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado. Il film ritrae le opere del fotografo brasiliano Sebastiao Salgado. É stato presentato in concorso al Festival di San Sebastian 2014 e al Festival internazionale del film di Roma del 2014.

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«Un fotografo è letteralmente qualcuno che disegna con la luce.
Un uomo che descrive e ridisegna il mondo con luci e ombre»
Salgado

Il sale della terra – questo bellissimo film! Infatti non si può parlare in questo caso di un vero e proprio documentario. Con ciò non si vuole fare semplicemente una questione di generi. Si vuole, sottolineare come questo film ecceda dal suo stesso interno sia il genere documentaristico che quello biografico. Questi due generi di solito si sviluppano su un registro che potremmo definire ‘descrittivo’. Ma per descrivere alcunché bisogna prendere una certa distanza dall’oggetto per poterlo abbracciare con lo sguardo e, quindi, descriverlo; e questo è proprio ciò che non fa né Wim Wenders con la vita e l’opera di Salgado, né Salgado stesso nei confronti della realtà che fotografa. Questo aspetto anomalo rispetto al genere documentaristico è sottolineato anche dall’evidente empatia che lega Wenders alla persona e all’opera di Salgado come pure dall’empatia che Salgado stesso sente con la realtà che fotografa. In un certo senso in questo film è più in gioco un sentire che un rappresentare. Un sentire, ma non un mero sentimento umano o umanistico o umanissimo, un mero sentimento di pietà e partecipazione per le sofferenze degli uomini ritratte in fotografia. Non si tratta nemmeno – almeno in prima battuta – di un sentimento catartico. Non è in gioco solo una empatia umana generica che pure è presente con sfumature umanissime e nobilissime – particolare che da solo basterebbe a mettere in questione la distanza che dall’oggetto descritto il documentarista prende e deve prendere. Infatti, qui è in gioco quello che potremmo chiamare il sentimento stesso della realtà, il senso di quell’essere al mondo, gettato nel mondo, che caratterizza non tanto la psicologia di Wenders o di Salgado, ma che è proprio ad ogni esistenza: sentimento che ha a che fare non tanto e non solo con questioni di ordine psicologico, ma con quella che potremmo chiamare la ‘condizione umana’; tuttavia dovremmo parlare piuttosto di ‘in-condizione umana’ e non solo per il fatto che Salgado ci abbia mostrato uomini sfigurati dalla violenza e dalla povertà. In gioco, quindi, c’è qualcosa di inumano che continuamente tende ad eccedere il piano della descrizione e della narrazione degli eventi. Un senso-sentimento del nostro essere nel mondo (il riferimento qui è evidentemente a Heidegger) che è più fondamentale di ogni empatia pensata psicologicamente. Un senso-sentimento di fondo che percorre dall’interno ogni fotografia di Salgado e che difficilmente può essere rappresentato, ma che può solo essere sentito.

Già solo per questo aspetto non possiamo parlare di documentario. Questo film inoltre non si limita a farci fare esperienza di un senso-sentimento di fondo che sta sullo sfondo e che è senza fondo (un sentimento abissale per cui le immagini di Salgado riprese da Wenders letteralmente s-fondano il piano della rappresentazione sia dalla parte dello spettatore che dalla parte di ciò che è rappresentato). Questo sentimento poi è un sentimento pensoso che potremmo chiamare ‘pathos’. Questa pensosità non ha a che fare tanto con il rimandare o rinviare ad una visione del mondo oppure ad un concetto determinato, ad un’idea di mondo. Questo senso-sentimento esige che dall’interno di quest’ultimo si sviluppi una riflessione che potremmo definire ‘filosofica’, ma intendendo per ‘filosofia’ appunto un modo di guardare: ovvero un modo di guardare alla realtà che è sempre e necessariamente dislocato all’interno della realtà stessa su cui riflette con una riflessione che solo fino a un certo punto è riconducibile a concetti determinati o a contenuti di pensiero; un pensare che ha a che fare piuttosto con un’apertura d’orizzonte, con un modo di abitare… In questo senso preciso e vago ad un tempo Il sale della terra potrebbe essere definito un film-saggio anziché che un classico documentario.

Il film si apre con un evidente riferimento al libro della Genesi: Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre (Genesi 1,3-4) al fine di sottolineare ad un tempo la creatività del fotografo che disegna con la luce e la drammaticità della realtà fotografata che è fatta non solo di luce ma anche di tenebre.

Importante ci sembra il riferimento a quella che è l’etimologia del termine “fotografia”: che significa disegnare con la luce – dice Salgado. Ma sarebbe meglio dire: scrivere (graphis) con la luce (phos). Preferiamo parlare di ‘scrivere’ anziché di ‘disegnare’ con la luce perché come vedremo le fotografie di Salgado dall’inizio e fino alle sue ultimissime metteranno in vario modo in questione la fotografia intesa come rappresentazione della realtà. La scrittura, infatti, ha uno statuto di traccia per cui parlare di fotografia come ‘scrittura con la luce’ pone meglio l’accento sul suo essere traccia di luce impressa sulla pellicola. La fotografia sulla pellicola, infatti, è traccia e impronta lasciata dalla luce. Questa passività che caratterizza la macchina fotografica contribuisce già in quanto tale a mettere in discussione la capacità attiva del fotografo di organizzare attivamente in immagine la realtà fotografata. Infatti è lo stesso Salgado all’inizio del film-saggio a sottolineare come il fotografo non dia forma alla realtà, ma la riceva da quest’ultima: “Quando fotografo non rapisco i volti alle persone, ma sono  loro stesse ad offrirmi il loro volto”.

Importante è anche l’affermazione di Wenders all’inizio del film. Il regista afferma che non è poi così facile filmare un fotografo perché quest’ultimo è sempre pronto a renderti la pariglia. Quindi nel film di Wenders non è mai solo in gioco uno sguardo (quello del regista), ma è sempre possibile rispondere a questo sguardo con un contro-sguardo. Se questo è vero per Wenders, che vuole filmare un fotografo, è altrettanto vero per le fotografie scattate da Salgado: anche la realtà, i volti e le persone fotografate da Salgado sembrano a loro volta guardarci con quello che abbiamo chiamato un vero e proprio contro-sguardo; non siamo noi a guardarle, ma sono loro a guardare noi, sono loro a leggerci dentro, ad interpellarci. Questo rimbalzo di sguardi, da cui non è immune lo stesso regista, caratterizza molte delle fotografie di Salgado. Infatti si ha forte l’impressione di fronte ad una sua foto che i ruoli si invertano: è dal fondo senza fondo (e non perché sfuocato – infatti niente è sfuocato nelle foto di Salgado) delle sue foto che emerge uno sguardo contrario, un contro-sguardo. Questa è la dimensione di scandalosa ed esasperata frontalità che caratterizza molte delle foto di Salgado. Una dimensione che ha un valore etico irriducibile all’ordine compositivo della singola foto. Ma su questo non ora.

Un ulteriore elemento, che ci aiuterà ad orientarci in questo immenso continente rappresentato dalla intera produzione fotografica che nel corso dei decenni Salgado è andato accumulando, ce lo fornisce il racconto del fotografo che mentre fotografava la vita di una tribù veniva dai suoi componenti considerato come un inviato degli dei con l’incarico di riconoscere i buoni separandoli dai cattivi. Questo fatto ci dice molto sul tipo di sguardo qui in questione: infatti si può dire che non è uno sguardo onnisciente ed onnivedente, non è uno sguardo dall’alto, non è lo sguardo di un Dio lontano che da fuori del mondo (non si capisce bene da dove) guarda al mondo. Lo sguardo di Salgado è uno sguardo dislocato. E visto che abbiamo tirato in ballo Dio potremmo affermare che lo sguardo di Salgado sia uno sguardo “incarnato”. É da dentro e attraverso la realtà che guarda alla realtà fino al punto da diventare anch’egli una persona tra le persone da lui fotografate: uomo tra gli uomini, uomo che accetta anche il rischio di perdersi tra gli uomini. Mentre la frontalità, che caratterizza molte delle sue fotografie, ha un valore etico anziché estetico, questo essere uno sguardo da dentro ed uno sguardo attraverso la realtà ha un valore estetico anziché etico; anche se vedremo in seguito come questi due assi – “etico” (Di fronte) ed “estetico” (Attraverso) – non possano che incrociarsi ed articolarsi insieme nelle foto di Salgado. Questo ‘sguardo da dentro’, questo ‘sguardo attraverso’  è uno sguardo che non vuole rappresentare la realtà, perché è un modo di sentire la realtà stessa come qualcosa in cui si è ricompresi, immersi, gettati, dislocati, accerchiati… Questo tratto ha quindi a che fare con quel senso-sentimento che caratterizza l’atteggiamento dell’uomo – prima ancora che del fotografo – Salgado nei confronti della realtà. Ed è un senso-sentimento che non caratterizza qualcosa come la psicologia di Salgado, ma è un senso-sentimento che accomuna il fotografo a tutte le altre nude esistenze da lui fotografate. Questo senso-sentimento non può essere rappresentato (e provare a farlo darà inevitabilmente luogo a delle foto mediocri e retoriche) ma solo sentito ed è questo che sta alla base dello straordinario pathos che ci comunicano le sue fotografie.

Ora la genialità e l’umanità di Salgado stanno tutte in questo modo paradossale anche se non contraddittorio di fotografare che si sviluppa secondo questi due assi: quello del di fronte e quello dell’attraverso. Se nel caso dello “sguardo da dentro” e dello “sguardo attraverso” abbiamo parlato di estetica dovrebbe a questo punto del nostro discorso essere chiaro. Qualche parola in più vogliamo dedicare allo “sguardo di fronte” articolato e pensato come “sguardo contro” e sul suo profondo valore etico. Infatti possiamo qui definire la frontalità delle foto di Salgado – che ci si impongono con una forza straordinaria – una frontalità etica proprio perché grazie ad essa diviene possibile quello che potremmo chiamare un rovesciamento dello sguardo, per cui appunto noi (fotografo e osservatore della foto) da osservatori diventiamo osservati da uno sguardo che si sviluppa dal fondo senza fondo delle foto di Salgado. Sono le foto a guardarci e ad accusarci, per cui noi grazie ad esse decadiamo dal nostro status privilegiato di osservatori della realtà in fondo in fondo indifferenti ad essa per essere messi sotto accusa dallo sguardo dell’altro che ci fa da sempre responsabili per ciò che lì – nelle foto di Salgado – viene rappresentato davanti a noi.

Se le nostre riflessioni sullo “sguardo da dentro” e sullo “sguardo attraverso” erano ispirate ad Heidegger non sarà difficile riconoscere in queste ultime riflessioni relative allo “sguardo di fronte” ed allo “sguardo contro” un rinvio alla filosofia di Levinas. Crediamo che Salgado nelle sue fotografie (cosa che Wenders sembra aver ben colto) sia riuscito ad articolare insieme queste due diverse modalità (piano etico e piano estetico dell’immagine) anche se non in maniera perfetta. Per questo non ci sentiamo di parlare di una qualche sintesi, ma preferiamo l’immagine dell’incrocio. Infatti “sguardo da dentro” e “sguardo di fronte” non sono sintetizzabili: l’uno non cessa di sopravanzare rispetto all’altro più nel segno di un conflitto che nel segno di una sintesi. Ma a nostro modo di vedere si tratta di un conflitto generativo di senso.

Qui vogliamo soffermarci su di un aspetto che caratterizza lo “sguardo di fronte” nelle fotografie di Salgado – con riferimento soprattutto alle fotografie della giovinezza e della maturità, escluso l’ultimo periodo, quello del ritorno alla fotografia dopo la crisi creativa e l’impegno per la ri-coltivazione della Mata Atlantica. Un aspetto che Salgado arriverà a comprendere appunto nella sua maturità quando a causa della brutalità e inumanità dell’essere umano, da lui documentata e denunciata, sembra che la sua vena creativa si sia esaurita.

Ad un certo punto Salgado si ferma, è completamente svuotato dalle atrocità che ha fotografato e denunciato, sembra essersi esaurita anche la sua vena creativa – non riesce più a fotografare. Ma cosa sta all’origine di questo vero e proprio blocco? Anche se arduo noi vorremmo lo stesso tentare una risposta. Crediamo, infatti, che quello che abbiamo chiamato conflitto – e di un conflitto senza possibilità di ricomposizione si tratta – tra l’asse etico (il di fronte) e quello estetico (l’attraverso)  che caratterizza il suo modo di fotografare stia all’origine dell’impasse con cui nella sua maturità artistica Salgado si è trovato a fare i conti. Proviamo a spiegarci. Fotografare l’osceno, il nonsenso per denunciarlo: sembrava questo il movente che spingeva Salgado a fotografare insieme ad una smodata passione per la fotografia. Ma proprio nel momento in cui tu mostri l’orrore per mezzo di una macchina fotografica – usata per di più non solo come mezzo per documentare la realtà, ma anche e molto più come strumento espressivo veicolante comunque una qualche intenzione estetica se non proprio artistica – lo tradisci: infatti fotografando l’orrore pur sempre ricomponi il nonsenso in una inquadratura che senso (estetico, compositivo addirittura artistico!) restituisce in qualche modo a quelle immagini inaccettabili. Ecco l’origine dello scacco davanti al quale a un certo punto Salgado si trova. Di fronte all’obiettivo del fotografo l’orrore di cui è capace l’uomo viene denunciato senza filtri o infingimenti, ma pur sempre viene ricomposto dentro un’inquadratura. La realtà anche la più atroce si mette pur sempre in qualche modo in posa davanti all’obiettivo. I cadaveri di morti denutriti vengono – come dire – ‘imbellettati’ per sembrare ancora più cadaveri di morti denutriti e questo avviene comunque per il solo fatto di essere fotografati. L’orrore deve essere rappresentato (per essere almeno denunciato nella sua inaccettabilità) ma non può essere rappresentato perché rappresentarlo significa ‘metterlo in forma’ e così restituirgli un valore estetico se non addirittura artistico (come nel caso di Salgado). Fotografare l’orrore a Salgado ad un certo punto deve essere sembrato come costruire la sua opera con mattoni fatti di lacrime e di sangue. All’inizio quei due assi (etico ed estetico – il di fronte e l’attraverso) nel loro confliggere senza possibilità di sintesi erano stati il vero e proprio motore creativo della ricerca di Salgado; alla fine invece consegnano nel loro irricomponibile confliggere proprio la ricerca di Salgado all’impossibilità di un compito paradossale se non assurdo, un compito che potrebbe essere riassunto nella formula: “non posso, ma debbo”. Ormai maturo si ferma a riflettere ed in un momento passa dalla volontà di rappresentare l’orrore per denunciarlo (anche se pur sempre scattando delle ‘belle’ fotografie) alla consapevolezza di quale orrore sia la rappresentazione dell’orrore. L’orrore è propriamente l’osceno: ciò che non può, né deve essere ‘messo in scena’ (stiamo evidentemente facendo riferimento alla tragedia greca). Salgado forse si rende conto che non basta puntare l’obiettivo sull’orrore per poterlo denunciare. La mostruosità del reale eccede sempre la rappresentazione e l’orrore non può essere semplicemente ricomposto in immagine senza che questa ricomposizione sia un’operazione di cosmesi.

Ora dobbiamo chiederci (perché effettivamente sia il regista che il protagonista di questo film-saggio se lo chiedono) se e come sia possibile uscire fuori da questa impasse. Questo film-saggio, infatti, non si ferma alla testimonianza di questa impossibilità o alla impossibilità di questa testimonianza. Allora come Salgado riesce a svincolarsi da questa situazione bloccata? Arrivati a questo punto diventa decisivo dissociare i due protagonisti di questa storia raccontata magistralmente da Wenders: il primo protagonista è Salgado stesso con la sua vita, mentre il secondo protagonista è la sua opera – finora questi due protagonisti si sono come sovrapposti l’uno sull’altro senza differenziarsi molto. Tuttavia arrivati a questo punto non possiamo più considerarli semplicemente come equivalenti. Man mano che procediamo nella visione di questo film-saggio (che veramente poco ha a che fare col genere documentaristico) la vita e l’opera di Salgado tendono quanto meno a dissociarsi però senza contrapporsi. Più il film di Wenders va avanti più la vita di Salgado sembra eccedere la sua opera – vita e opera non coincidono più; anzi ad un certo punto – come abbiamo visto – l’opera e la vita di Salgado si sganciano fino al punto in cui il fotografo non è più in grado di portare avanti la sua opera. Questo è molto importante al fine di comprendere la reazione di Salgado stesso alla sua crisi creativa, reazione che gli permetterà di uscire da quel vicolo cieco in cui alla fine era giunto.

Come ne esce? Non solo rifiuta di dare senso al nonsenso attraverso il compimento dell’opera, ma pone la questione del senso e del nonsenso non più sul piano della fotografia, cioè dell’opera, cioè dell’arte, bensì sul piano della vita. Questo sta a significare la scelta di smettere di fotografare per dedicarsi al rimboschimento della Mata Atlantica. Cosa significa questo gesto? Una rinuncia all’arte per dedicarsi completamente a questa attività di rimboschimento come risposta politica esemplare alla crisi ecologica del pianeta? Oppure significa considerare la stessa attività di rimboschimento come una specie di opera d’arte totale dove venga meno la stessa distinzione tra opera e vita? In questa scelta di Salgado non vogliamo vedere tanto il sacrificio dell’opera alla vita oppure il sacrificio della vita all’opera, bensì l’intuizione (estetica più che intellettuale) della distinzione dei due piani che possono richiamarsi vicendevolmente proprio grazie all’intuizione ed all’istituzione di detta distinzione. La scelta di dedicarsi a quest’opera di rimboschimento sospende soltanto quello che potremmo chiamare il ‘piano dell’opera’ così dischiudendo l’intervallo tra opera e vita e rendendo finalmente possibile il transito dall’un piano all’altro – ma questo comincerà a diventare più chiaro solo alla fine. Infatti questo film-saggio si concluderà non con la definitiva rinuncia all’arte da parte di Salgado, ma proprio con un sorprendente ritorno all’arte anche se in maniera effettivamente spiazzante. Cercare di dare senso al nonsenso dell’esistenza non più nell’opera, ma nella vita non vuol dire rinunciare all’arte – che so – per la politica (l’impegno ecologista di Salgado e di sua moglie); infatti Salgado ritornerà a fotografare anche se in un modo radicalmente differente rispetto a quello che abbiamo imparato a conoscere proprio attraverso il film-saggio di Wenders.

Salgado, quindi, ritorna alla fotografia ed in maniera sorprendente: non solo i soggetti da lui fotografati, non solo il suo stesso modo di fotografare è cambiato, ma è la sua stessa anima ad essere cambiata. Non fotograferà più le drammatiche condizioni dei popoli africani come ha fatto in “Sahel: The Ends of the Road”; né fotograferà le inumane condizioni di vita dei lavoratori sfruttati in giro per il mondo come ha fatto in “Workers”; né documenterà le folle disperate di diseredati migranti raccontate in “Migrations”. Con “Genesis”, infatti, sembra essersi dimenticato del dramma dell’uomo, offeso nella sua dignità perché ridotto da povertà e sfruttamento a vivere in condizioni inumane, per dedicarsi a fotografare gli angoli del pianeta non ancora contaminati dalla modernità. Oltre alle bellezze del creato fotografa anche popoli ‘selvaggi’ che nella loro innocenza ci riportano quasi ad uno stato edenico dove l’uomo viveva in comunione con la natura rispettandola prima che la violenza dell’uomo civilizzato ed industrializzato distruggesse ogni cosa. Di fronte alla straziante e meravigliosa bellezza del creato sembra che Salgado si sia dimenticato dell’uomo e del suo dramma. La natura diventa protagonista in tutta la sua innocenza preistorica. Salgado sembra essersi improvvisamente risvegliato da quell’incubo che è la storia dell’uomo per affacciarsi su di un paesaggio nuovo. Se prima l’unica salvezza possibile stava “nel restare dentro l’inferno con marmorea volontà di capirlo” (come recita un verso di “Picasso” di Pier Paolo Pasolini); ora sembra che l’idea stessa di salvezza sia mutata per Salgado che sembra essere giunto a sperimentare una salvezza ‘diversa’, una salvezza che non viene più dopo il dramma così in qualche modo giustificandolo; bensì una salvezza prima della salvezza, una salvezza senza bisogno di salvezza: una specie di strana innocenza.

Ma – dicevamo – non è cambiato solo il soggetto delle sue fotografie, è cambiato anche e molto più il suo modo di fotografare: Salgado rinuncia ad una fotografia di denuncia animata dalla volontà di mettere lo spettatore davanti all’inferno. E così ritorna capace di fotografare quello che sembra una ‘seconda’ innocenza, quello che sembra effettivamente un paradiso terrestre. Con “Genesis” Salgado torna capace di fotografare l’innocenza. La natura gli si mostra – ora che il suo sguardo non è più tutto proteso nel gesto della denuncia più o meno livida e rancorosa dell’orrore – come non bisognosa di redenzione perché già da sempre redenta. Salgado trova un nuovo sguardo capace miracolosamente di filmare l’innocenza della realtà. Non tanto uno ‘sguardo innocente’ nel senso di ingenuo e sprovveduto. Uno sguardo ‘innocente’ perché non più espressione di un punto di vista sul mondo.

Prima fotografare significava ‘prendere posizione’ di contro al mondo pur partendo dalla consapevolezza di essere in tal mondo gettato. Anche se la frontalità delle sue foto precedenti era una frontalità di tipo etico ancora Salgado lì poneva la realtà, che voleva rappresentare, in un rapporto di tipo ‘conoscitivo’ per cui al di qua della rappresentazione si presuppone un soggetto che si contrappone all’oggetto raffigurato. Certo, in quelle foto assistevamo al rovesciamento di questo sguardo e non a caso abbiamo parlato di uno ‘sguardo contro’ dalla valenza in qualche modo etica piuttosto che gnoseologica. La realtà ritratta da quelle foto sembrava opporre resistenza al mezzo tecnico che la voleva catturare in immagine; questa resistenza, poi, era una resistenza di tipo etico e non fisico: la realtà in tutta la sua mostruosità o meraviglia si rifiutava alla rappresentazione – questo spiega quella ‘voce di protesta’ che ci sembra di udire ogni volta che posiamo lo sguardo su queste foto. Questo aspetto delle foto di Salgado ne fa delle foto in rivolta, foto che proprio perché si rivoltano contro il mezzo tecnico, che vorrebbe catturare la realtà rappresentata in immagine, ci rivolgono il loro volto.

Ebbene nell’ultimissima produzione di Salgado (a partire cioè dal progetto “Genesis”) assistiamo ad un profondo cambiamento del suo modo di guardare alla realtà. La frontalità viene meno. Il suo sguardo diventa uno sguardo innocente – ma come può uno sguardo essere ‘innocente’? Puntare l’obiettivo, infatti, significa guardare da un certo punto di vista alla realtà e questo presuppone che dietro l’obiettivo della macchina fotografica ci sia un soggetto. Se questo è vero, allora uno sguardo innocente è uno sguardo che al di qua dell’obiettivo non presuppone un soggetto – potremmo parlare di uno sguardo senza occhio. Qui vogliamo ricordare una espressione di Lacan che nel Seminario XI parla di una ‘schisi’ tra occhio e sguardo. Ecco, vorremmo dire che uno ‘sguardo innocente’ mette in opera una radicale dissociazione tra occhio e sguardo. Uno sguardo innocente non è punto di vista, né vista panoramica. In queste ultimissime foto di Salgado sembra proprio che al di qua della macchina fotografica non ci sia un soggetto; quindi la realtà rappresentata non è ridotta ad oggetto di visione. In queste foto sembra che noi si abbia a che fare con immagini che non presuppongono né un soggetto, né un oggetto di rappresentazione: queste foto non sono più o forse non sono mai state ‘rappresentazioni’ – forse è proprio questo che siamo tentati di chiamare ‘innocenza’. É grazie a questo sguardo innocente senza oggetto e senza soggetto che perveniamo a quello che potremmo chiamare uno ‘stato edenico’ della realtà. Non si tratta di un ritorno nostalgico ad un naturismo di maniera perché disgustati dalla violenza di cui è capace l’uomo. Si tratta di rendere in immagine qualcosa che sia libero dalla violenza della rappresentazione che reifica ogni cosa mortificando la realtà, qualsiasi realtà, non solo quella drammatica fotografata agli inizi da Salgado stesso. Qui, in queste ultime foto, il dramma viene meno. Infatti il dramma presuppone un soggetto che agisce, mentre in queste ultime foto non viene meno solo il dramma, ma sembra che il soggetto, l’uomo, abbia abbandonato la scena. Ecco l’aspetto in-umano di queste ultime foto. Le prime fotografie di Salgado denunciavano quanto di inumano c’era nel mondo; ora le sue ultime fotografie descrivono un mondo inumano – questo è vero solo se diamo un senso differente alla parola ‘inumano’. Le prime foto di Salgado denunciavano un soggetto umano violato proprio nella sua umanità e quindi rappresentavano le condizioni inumane a cui sono ancor oggi ridotti molti esseri umani. Queste foto, quindi, presupponevano l’uomo, un’idea di uomo, per poter denunciare i molti modi in cui quest’essenza è stata violata, deturpata, alienata, reificata. Invece le foto dell’ultimo Salgado sono inumane in quanto sono immagini che non presuppongono più questa idea di uomo. Sono inumane senza essere disumane. L’uomo non viene più rappresentato. L’uomo non sta più né davanti, né dietro la macchina fotografica. Non c’è più un occhio che guarda e una realtà guardata, ma c’è solo questo sguardo innocente che, dissociatosi dall’occhio e congedatosi dall’occhio, percorre la superficie della ‘realtà’ trovandosi come a casa. Si tratta però di una superficie senza spessore, senza profondità… qualcosa che eccede la rappresentazione dall’interno stesso della rappresentazione facendo di queste fotografie delle immagini in-umane ed in questo senso innocenti. Ormai tra chi guarda e la realtà sembra che non si intrometta più la rappresentazione – è forse questo che intendiamo con ‘innocenza’?

Il sale della terra – come si dice all’inizio di questo film-saggio – sono gli uomini. «Voi siete il sale della terra – dice Gesù nel vangelo di Matteo (Cfr. Matteo 5,13) – ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si renderà salato?». Forse… con l’arte.

Stefano Valente

P.S.: All’origine di alcune delle incertezze di questo articolo sta la sovrapposizione della questione del rapporto tra estetica ed etica con la questione del rapporto tra opera (arte) e vita. Questo slittamento e questo lento transitare di una questione sull’altra rende le mie argomentazioni bisognose di una riformulazione ulteriore. Decido comunque di pubblicare questo piccolo saggio per le questioni fondamentali che affronta anche se a volte in maniera impressionistica. Il mio vuole essere un piccolo contributo alla critica della rappresentazione non solo ‘artistica’, critica le cui basi nonostante tutto sono rintracciabili in questo mio articolo.

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