FESTIVAL DI CINEMA

Future Film Festival: intervista a Luca Della Casa

Mentre a Bologna viene inaugurato il Future Film Festival, in attesa quindi di potervi ragguagliare sulle proposte più interessanti di questa edizione, vogliamo riproporvi l’intervista realizzata nel 2015 con uno dei collaboratori più preziosi del festival, Luca Della Casa.

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L’edizione 2015 del Future Film Festival, un’edizione risultata comunque di buon livello, era stata contrassegnata da un piccolo salto nel buio, ovvero da quel significativo cambiamento di date, per cui il festival bolognese dalla sua ormai consolidata collocazione invernale era slittato fino ai primi di maggio. L’esperimento è andato serenamente in porto. E così anche questo 18° Future Film Festival va in scena con le più miti temperature della primavera, presentando un calendario di eventi sulla carta sfiziosissimo che per la giornata inaugurale, prevista oggi 3 maggio, propone già alcuni appuntamenti di notevole valore. Alle 18.30, come a ribadire che il Future Film Festival pone il cinema in primo piano, ma coltiva anche la multimedialità e certe proficue intersezioni con le altre arti, è in programma l’inaugurazione della mostra Manga Hokusai Manga – Il fumetto contemporaneo legge il maestro, al MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna. Mentre alle 21 ci si sposterà nella Sala Mastroianni del Cinema Lumière, per l’anteprima italiana del film Miss Hokusai, diretto dal giapponese Keiichi Hara.

Giappone in grande spolvero, quindi. E stando ai nostri ricordi era stato grande protagonista anche un anno fa. Tocca cogliere la palla al balzo, infatti, per riproporre un’intervista realizzata proprio al termine del 17° Future Film Festival, quale bilancio di un’annata che aveva fatto per certi versi da spartiacque, con il preparatissimo Asian Coordinator della kermesse emiliana, Luca Della Casa; un fine conoscitore della materia, il cui tocco in selezione è servito anche, durante tutti questi anni, a farci conoscere alcune delle migliori produzioni animate dell’Estremo Oriente. L’inopportuno controcampo della completa disponibilità dimostrata allora da Luca, desideroso di approfondire con noi ogni aspetto dell’edizione 2015, è rappresentato purtroppo dalla nostra pigrizia, che ci ha impedito finora di pubblicare il risultato di una così lunga e appassionata conversazione. In realtà tale intervista era semplicemente finita in coda ai tanti articoli, dedicati un anno fa alle visioni del festival che più ci avevano colpito. Ma, mentre si avvicinava la data d’inizio del 18° Future Film Festival, abbiamo pensato che era davvero un peccato lasciar cadere la cosa così. E ci è pertanto venuto in mente che non era una cattiva idea riprendere gli spunti salienti di quella bella chiacchierata, rivelatasi anche utile a fare il punto sull’odierna situazione del cinema d’animazione, giapponese e non, per usarli come intro di questa nuova edizione del festival. Buona lettura, quindi. Anche se a scoppio ritardato!

Il 17° Future Film Festival è stato caratterizzato anche da uno spostamento di date, rispetto alle precedenti edizioni. Il festival da quest’anno si fa ai primi di maggio. E su qualche testata avevo poi letto gli interventi del direttore Oscar Cosulich, in cui ci si riferiva proprio a tale questione. Potresti provare un po’ tu, Luca, a riassumere quali sono stati i principali elementi, che hanno portato a una diversa calendarizzazione?

Dunque, lo spostamento di date è dovuto in parte alla necessità di rientrare all’interno di una programmazione di altri eventi della “Bologna contemporanea”, come è stata definita, ovvero una serie di festival ed eventi vari che si svolgono durante l’anno in città, così da andare a inserirsi nel panorama cittadino senza sovrapporsi ad altre iniziative e rendendo la cosa un po’ più organica. E un po’ ha poi inciso un’altra questione, relativa alla gestione dei budget della Regione per il nuovo anno. Vi è infatti una convenzione che facciamo con la Regione Emilia-Romagna, ancora più importante ora perché purtroppo quest’anno i finanziatori privati sono stati assenti, forse perché, come ha fatto notare lo stesso Oscar Cosulich in alcune delle interviste che citavi, tutto si è concentrato sull’EXPO di Milano. E allora noi, essendoci ritrovati nei giorni di apertura dell’EXPO, abbiamo cercato con un omaggio retrospettivo di focalizzare la nostra attenzione sul cibo, però in una chiave più ironica, vedendo come la fantascienza cinematografica abbia rappresentato il cibo del futuro. Quindi questo discorso Eat the Future è anche un modo per dire mangiamo, addentiamo il futuro, attraverso un’attenzione particolare alla fantascienza. Per questo motivo siamo andati a recuperare alcuni cult movies che rappresentassero ciò che la science fiction ha fatto vedere della sovrappopolazione nel futuro, e quindi la difficoltà a trovare cibo, oppure il cibo che in realtà è qualcosa di alieno da noi e che ci può trasformare, ci fa mutare in qualcosa che a volte è anche pericoloso. Per esempio film come Stuff – Il gelato che uccide / The Stuff (1985) di Larry Cohen; o magari Il cibo degli dei / The Food of The Gods (1976) di Bert I. Gordon, che crea mutazioni negli animali fino a renderli giganteschi; oppure Horror in Bowery Street / Street Trash (1987) di Jim Muro, dove è addirittura un liquore a sciogliere i corpi; e poi chiaramente 2022: I sopravvissuti ovvero Soylent Green (1973) di Richard Fleischer, un capolavoro della fantascienza con protagonista Charlton Heston, che racconta questo futuro prossimo dove la popolazione è talmente vasta, nel mondo, che per nutrirla bisogna riconvertire i cadaveri, cioè carne umana, perché sennò non si riuscirebbe a sfamare tutti. Insomma, è inquietante, però abbiamo voluto strizzare l’occhio in maniera un po’ ironica al discorso alimentazione, visto che adesso si parla tanto di cibo cercando la raffinatezza, il gusto del palato, mentre si deve ancora fare i conti con ampie fette di mondo dove il cibo manca.

Da parte mia ho molto apprezzato sia la sagace, persino amara ironia con cui è stata concepita tale retrospettiva, sia la scelta dei titoli. E a tal proposito penso vada lodato anche l’impegno, da parte vostra, nell’organizzare retrospettive cercando di mettere insieme copie buone in DCP, in altri formati digitali o persino in pellicola, cosa che oggigiorno capita sempre di meno, pure quando si tratta di festival. Puoi dirci in breve cosa c’è dietro a un simile sforzo, soprattutto per quanto riguarda la difficoltà di presentare anche qualche film in pellicola?

Certo, ormai organizzare le retrospettive diventa complicato per un festival, perché c’ha dei costi vivi notevoli. Le pellicole sono sempre più difficili da trovare. Per esempio di Stuff – Il gelato che uccide abbiamo trovato la pellicola nella Cineteca di Bologna, che quindi ringraziamo. Altri film che sembrava esistessero in pellicola si sono rivelati poi sciolti dal tempo, per cui si è dovuto ripiegare su versioni digitali. Però per fortuna c’è anche qualche recupero, come ad esempio Soylent Green, che è stato restaurato recentemente e che abbiamo presentato in DCP, quindi sul formato digitale più importante per le proiezioni; e ciò rappresenta un recupero importante, perché sennò il cinema del passato rischia veramente di andare al macero, come la maggior parte delle copie in pellicola. Speriamo di essere riusciti a rendere comunque giustizia a questi film, pur sapendo che è sempre più difficile, purtroppo, riuscire a riproporli sul grande schermo nella loro qualità originaria.

Io però adesso farei un salto dal cinema del passato a quello del presente, ovvero la panoramica molto ricca che anche quest’anno si è voluto offrire, in particolare per quanto riguarda il cinema di animazione. Ecco, a mio avviso proprio le novità offerte dal cinema d’animazione giapponese costituiscono, da diversi anni ormai, il fiore all’occhiello del festival. Per questa edizione come avete sondato il terreno, cosa offriva di interessante l’animazione giapponese e non, sia quella più autoriale, sia in termini di grossi successi commerciali?

Beh, dal Giappone abbiamo puntato su un titolo come Giovanni’s Island, così come abbiamo puntato su Lupin III: Daisuke Jigen No Bohyou (La Lapide di Daisuke Jigen), perché comunque la proposta è sempre molto varia, per quanto negli ultimi anni l’animazione giapponese anche al cinema abbia portato molto spesso storie legate alle serie TV. Si è quindi sviluppata maggiormente sul versante più commerciale. Però volevamo anche riportare Lupin al cinema, con questo doppio episodio che comunque ha avuto una distribuzione cinematografica in Giappone. Dopo lo spin-off su Fujiko Mine, l’amata Fujiko di prosperose fattezze, il regista Takeshi Koike che è una nostra vecchia conoscenza perché presentammo anni fa il suo pilot per Afro Samurai e poi Redline che è stato il suo esordio nel lungometraggio, qui ha avuto modo di dirigere una sorta di film autoconclusivo che però occhieggia alla serialità, attraverso questa suddivisione in due parti, e l’ha fatto con uno stile che rende pienamente giustizia ai personaggi di Lupin e di Jigen, il pistolero suo amico. Credo sia un prodotto piuttosto riuscito, in attesa della futura serie televisiva ambientata in Europa, in Italia, che dovrebbe andare in onda dopo tanti anni dall’ultima serie televisiva di Lupin, perché in questi ultimi anni sono stati realizzati solo i film per la TV. Mancava una serie di Lupin dagli anni ’80 e ritornerà in una veste grafica che richiama di più la prima serie, quella anche diretta da Takahata e Miyazaki.
In concorso, invece, abbiamo voluto inserire l’ultima opera della Production I.G., Giovanni’s Island, perché comunque abbiamo seguito in tutti questi anni i lavori della Production I.G. come studio di riferimento per un tipo di produzione non solo commerciale, ma anche autoriale. Ricordo che Production I.G. è famosa per Ghost in the Shell, però produce ogni anno un film. Abbiamo presentato qui varie cose, da Oblivion Island che era il loro primo esperimento con la computer grafica a 009 Re: Cyborg, con il manga originale di Shotaro Ishinomori trasposto dallo studio anche al cinema, passando magari per quell’altra proposta di alcuni anni fa, Una lettera per Momo, che volendo era il film più poetico realizzato da Production I.G. e che ha poi avuto anche distribuzione italiana dopo il passaggio in anteprima al Future Film Festival.
Quest’anno abbiamo voluto dare spazio a Giovanni’s Island, che è una storia interessante dal punto di vista storico, perché si rifà a un episodio del dopoguerra quasi sconosciuto, di cui non si parla, che però fa capire tante cose di ciò che è successo dopo nel mondo. Insomma, si tratta dell’occupazione da parte dell’esercito russo delle isole più a nord dell’Arcipelago Giapponese, nella fattispecie l’isola di Shikotan. E in effetti viene raccontata questa occupazione di cui in Occidente poco si sa e che simboleggia anche un po’ il motivo, probabilmente, per cui gli americani hanno spinto per finire la guerra come è finita, con il bombardamento atomico, visto che tra Stati Uniti e Unione sovietica stava già iniziando la Guerra Fredda. Tutto questo però viene raccontato in maniera anche poetica, toccante, attraverso lo sguardo dei ragazzini abitanti di quest’isola, figli di pescatori e di agricoltori, che si ritrovano la casa occupata dalle famiglie di questi soldati russi, di cui ovviamente non si comprendono il linguaggio, la cultura; e quindi proprio attraverso i ragazzini appartenenti a culture differenti che si conoscono c’è un’apertura anche alla conoscenza dell’altro. E questo è molto interessante, perché fa parte di quel discorso inserito sempre nella produzione del fumetto e dell’animazione giapponese: un’apertura verso il diverso, un’accettazione anche della diversità molto spesso, che è comunque in contrasto con la cultura giapponese rimasta chiusa per secoli. Però in tutta la produzione pop giapponese del Novecento c’è invece questo discorso, che sicuramente è dettato anche dal protettorato americano nel dopoguerra, da cui è arrivata l’imposizione di rompere completamente con quella parte di storia legata al nazionalismo, alla chiusura verso l’esterno; d’altro canto a essere imposta è stata anche, forzatamente, un’apertura verso l’Occidente e l’America, che ha causato indubbiamente degli strappi nel tessuto sociale giapponese, anche in quello culturale, che è ricco di contraddizioni. Quindi c’è la tradizione, quel forte legame con la tradizione che viene portato avanti in Giappone, ma dall’altra parte vi è la modernità a tutti i costi, lo sviluppo tecnologico che guarda al futuro, l’occidentalizzazione totale. Sono tutti elementi che contrastano. Ed è bello che comunque ci siano ancora delle opere che vanno a riscoprire episodi dimenticati, se vogliamo, della storia giapponese, raccontandoli però con una sensibilità che è tipica di artisti come gli animatori, i fumettisti. La storia di Giovanni’s Island, dicevamo, è una storia vera, non è tratta da un fumetto ma è stata scritta apposta per il film, mentre il regista Mizuho Nishikubo, che tra le altre cose è il braccio destro dell’autore di Ghost in the Shell Mamoru Oshii, aveva peraltro già diretto Musashi: The Dream of the Last Samurai, ovvero la storia di Miyamoto Musashi lo spadaccino dell’epoca degli Shogun. In questo nuovo film lo stesso regista è invece impegnato a rileggere un passaggio del dopoguerra verso la storia del Giappone moderno, vuole quindi raccontare le vicissitudini di persone che magari sono ancora vive e hanno passato l’infanzia in quella situazione.

Sono allora storie apparentemente marginali, ma in realtà molto emblematiche?

Molto emblematiche, sì, anche considerando che come ho voluto rimarcare in altre interviste quest’anno ricorre il settantesimo anniversario delle bombe su Hiroshima e Nagasaki. Essendo trascorsi 70 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, si parla chiaramente della vittoria alleata contro i nazifascismi, contro la militarizzazione forzata di paesi come il Giappone, così come si parla di Liberazione in Italia perché ovviamente è molto sentita. Ecco, dovrebbe avere un ruolo importante nel discorso anche il ricordo dei 70 anni da un bombardamento atomico sulla popolazione civile. Perciò abbiamo voluto realizzare questo piccolo ricordo, attraverso la proposta dei film di animazione: più in particolare abbiamo proiettato Gen di Hiroshima, quel Hadashi no Gen la cui traduzione precisa sarebbe poi Gen dai piedi scalzi, ossia il piccolo protagonista del fumetto omonimo scritto e disegnato da Keiji Nakazawa, e che racconta la bomba su Hiroshima e il dopobomba attraverso le vicissitudini di questo piccolo sopravvissuto che poi è Nakazawa stesso. Vede gli effetti delle radiazioni sulla propria madre, sulla popolazione che è stata colpita dal fallout radioattivo. Quindi è anche questo un modo per ricordare. Come di certo sapete, tutti gli anni ad agosto vengono ricordate le vittime della bomba al mausoleo della pace di Hiroshima. Per i 70 anni da quel tragico evento anche noi volevamo fare qualcosa, anche se con un po’ di anticipo rispetto ad agosto, perché ci sembrava giusto richiamare l’attenzione su questo episodio, visto che d’altronde pur prevedendo spesso la partecipazione nelle cerimonie ufficiali di rappresentanti americani, per tale crimine non ci sono mai state scuse altrettanto ufficiali da parte del governo americano. E questo perché non si poteva dire. Infatti questi film, non a caso, sono film di animazione realizzati negli anni ’80. Dal dopoguerra fino agli anni ’80, praticamente, c’è stata una sorta di censura politica, di controllo strettissimo su un discorso che così non è mai stato affrontato, venendo quindi a costituire un “rimosso” nel Giappone moderno imposto prima dagli Stati Uniti, poi dagli stessi governi giapponesi che dovevano comunque appoggiarsi agli USA, in qualche misura, come paese amico nel contesto della Guerra Fredda. Anche perché poi si è puntato sull’energia atomica per usi civili, e quindi non si poteva parlare delle conseguenze di esplosioni atomiche. Purtroppo negli ultimi anni c’è stato l’evento di Fukushima, che comunque ha risvegliato molto le coscienze di una popolazione giapponese che ha iniziato a mettere in dubbio l’utilizzo di queste tecnologie così rischiose per la salute anche dei figli, delle nuove generazioni che andranno poi ad abitare il Giappone. E adesso poi diventa quanto mai attuale questo discorso su che cosa è stato il bombardamento atomico.

Allargando un po’ il raggio della nostra chiacchierata, la panoramica sull’animazione mondiale è sembrata quest’anno particolarmente ricca, anche a livello di presenze geografiche: dal Sudamerica col brasiliano “Até que a Sbórnia nos Separe” ai paesi nordici, dalla Corea a quella Spagna rappresentata, per esempio, dal gustosissimo e irriverente “Pos eso” di Sam, vivace lungometraggio che sembra quasi un film di Álex de la Iglesia riportato all’animazione. Cosa puoi dirci, quindi, di come si sta muovendo il settore dell’animazione a livello internazionale?

Quello che ci fa piacere è che comunque all’interno del concorso lungometraggi riusciamo a inserire film provenienti da ogni parte del mondo, mettendo così insieme una proposta molto varia che non riguarda soltanto la produzione americana, la quale resta comunque la più importante assieme a quella giapponese, soprattutto per il cinema; d’altro canto quella statunitense è una produzione che può vantare budget incredibili, ma molto spesso a discapito della qualità delle storie, a parte quei rari casi che ci possono venire ora in mente. Il fatto di riuscire a inserire in concorso film provenienti dalla Spagna, come Pos eso che tu hai citato, oppure dalla Corea come The Road Called Life, oppure dal Brasile come Até que a Sbórnia nos Separe, porta a una apprezzabile varietà di provenienze, di linguaggi, e qui intendo anche linguaggi tecnici, perché si va dal disegno 2D alla stop motion come in Pos eso, per esempio. Quindi tecniche differenti, paesi differenti, però con un’attenzione rivolta a narrazioni che non siano solo per bambini, ma per tutti e anche con argomenti seri, come può essere Rocks in My Pockets, dove si inserisce il racconto autobiografico della depressione dell’autrice, Signe Baumane: un’animatrice lettone che si è trasferita negli Stati Uniti e che ha lavorato a lungo con Bill Plympton, ringraziato non a caso nei titoli di coda del film. Questa cineasta esordisce nel lungometraggio raccontando con l’animazione una storia autobiografica, addirittura non solo sua personale, ma della propria famiglia, attraversando le diverse epoche della Lettonia invasa dai russi, poi dai nazisti, soggetta quindi ad accadimenti politici sconvolgenti. Signe Baumane si trova così a raccontare le vicissitudini famigliari di sua nonna, delle varie cugine, e lo fa esponendosi in prima persona. Abbiamo quindi il racconto animato anche per esprimere il quotidiano, o i problemi della psiche, non solo perciò quella narrazione fantastica per bambini cui parte del pubblico è maggiormente abituata.

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