“Nanà è una 40enne single, chiusa in se stessa dopo una storia andata male. Di estrazione borghese, è la classica donna che ha tutto e non ha niente….”.
Questa pellicola, decisamente mal riuscita, è un buon invito ad una riflessione di sostanza per chi fa cinema in Italia, specie le donne. Nina Di Majo, la regista in questione (classe 1975), ha alle spalle una buona gavetta con un pezzo di cinematografia napoletana di metà anni ‘90 (Martone, Incerti, De Lillo) che, per la carica di rottura con il passato, era stato soprannominato “scuola napoletana”. Ha spiccato poi il volo con due film parzialmente riusciti: Autunno (1999) e L’inverno (2002) nei quali ha decisamente strafatto per manierismo e taglio (brutta copia di Antonioni), mantenendosi comunque coerente con uno stile e una poetica autoriale da cui avevano preso le mosse i suoi primi cortometraggi. Otto anni dopo, la ritroviamo, irriconoscibile, con questa commedia.
Non è affatto il passaggio di atmosfere a sconvolgere: se in Italia oggi si riuscissero a realizzare commedie brillanti, intelligenti, divertenti, unite ad una grammatica filmica originale, saremmo i primi a gioirne (ma questo è un altro discorso). Sconvolge letteralmente la caduta in basso, perpendicolare. Da vette troppo eccelse per una ‘principiante’, la regista (dotata di un temperamento non comune) è improvvisamente affetta da presunta ‘umiltà’ cinematografica. Perché la storia che ci racconta è di una banalità imbarazzante, carta carbone di tanti filmetti politically correct dove ci si mette dentro un po’ di finto alternativismo, una sceneggiatura e dei dialoghi che non conducono a niente e, soprattutto, una generalizzazione e una semplificazione di tematiche che dovrebbero responsabilizzare chi le tratta, anche (e a maggior ragione) in chiave leggera: matrimonio, solitudine e identità femminile, famiglia, compromessi con la vita.
Andiamo per gradi: Nanà è una 40enne single (anche questo è il tema dell’anno, le donne senza uomo) chiusa in se stessa dopo una storia andata male. Vive a Firenze, in un bel ‘quartino’ (per usare un termine almeno napoletano, visto che la Di Majo non ha potuto girare neppure nella sua città, Napoli, per esigenze produttive) storico; di estrazione borghese, è la classica donna che ha tutto e non ha niente. Abita con un gatto (altra originalità di script narrativo), ha una libreria (altra novità, la donna pseudocolta), e ospita un inetto filmaker svedese che si rifà al Dogma (Lars von Trier mica poteva mancare quale riferimento culturale medio?). In aggiunta, è cotta di uno scrittore vecchio e noioso che non se la fila per niente. Questa donna è parte di una famiglia che naturalmente la destabilizza e, cosa ancora più grave, la sua sorellina minore Beatrice (ovviamente più spigliata e bella, altra originalità) sta per sposarsi. E Nanà, che di matrimonio non vuol sentir parlare (altra visione controcorrente, in quanto oggi va tanto di moda abiurare il matrimonio), si troverà, suo malgrado, a dover organizzare i preparativi della cerimonia e a doverlo fare col futuro cognato Alessandro, un ragazzotto cresciuto a pane e fare, poco colto, molto rozzo ma genuino e coerente nell’essere quello che è. Questa organizzazione forzata permetterà alla nostra zitellona di approfondire la conoscenza con Alessandro, di entrare meglio nelle dinamiche familiari e di scoprire uno ‘scottante segreto’ (sorrido, anche qui si brilla per inventiva e realismo) che taccio per coloro che volessero andare a constatare a schermo pieno le mie impressioni.
Naturalmente tutto è chiuso con happy hand e vuoto assoluto di percezione, farcendoci di luoghi comuni e di uno stile soporifero (dall’uso delle musiche, alla staticità della mdp). A malapena si sorride. Che tale prodotto (commercialmente garantito dalla Buy, la Littizzetto e Fabio Volo, interpreti che faranno rientrare almeno le spese) sia appiccicato al nome di Nina di Majo è una sconfitta per il cinema che ambiva a rappresentare. E lo scrivo con molta amarezza. Con l’amarezza di constatare come in Italia o si ha la fortuna (abbinata al talento, naturalmente) di creare qualità ed incassi come Martone e Sorrentino, oppure il prezzo da pagare per poter stare sul mercato è molto alto. Troppo. Vendersi l’anima.