“Salomè, danza per me!”: così Carmelo Bene nella sua meravigliosa trasposizione cinematografica del dramma di Oscar Wilde invitava la figlia di Erodiade, per la quale provava un accesso desiderio, a prodursi in un sensuale ballo, al chiarore di una luna pallida che incombeva sulla terrazza del palazzo reale, presagendo un funesto epilogo. Il film dell’autore salentino si concludeva con lo spellamento del volto di Erode, segnalando il tentativo (im)possibile di sbarazzarsi di quella soggettività contrassegnata da un’economia psichica non più sostenibile, e l’autocrocefissione del Cristo, con una crudele ironia (ironia impietosa), segnalava l’intenzione funambolica di disfarsi di ciò che rimaneva della Volontà. Una messa in scena, quella di Bene, straordinaria, con la fotografia splendente di Mario Masini e il montaggio vorticoso di Mauro Contini.
Al Pacino, il grandissimo attore proveniente dagli Actor Studios, celebre per le sue monumentali interpretazioni, a vent’anni di distanza da Looking for Richard, in cui si cimentava con l’opera di Shakespeare, tenta il suo personale corpo a corpo con Oscar Wilde, con una passione che lo possiede completamente, e di cui si vedono gli effetti nel film realizzato. Pacino, infatti, non si limita a mostrarci il faticoso tentativo di mettere in scena la meravigliosa tragedia ispirata ai Vangeli, ma più prosaicamente, e, dunque, in maniera vitale, offre allo spettatore il suo tormento, la difficoltà incontrata nel riuscire a penetrare fino in fondo nelle intenzioni dello scrittore, che cerca di comprendere al di là della sua opera, provando a ricostruirne la vita, rievocando tutti quegli avvenimenti più significativi che ne segnarono la creatività. Lo vediamo mentre si reca in Irlanda e poi a Londra, seguendo la traccia di un destino crudele che fatalmente si abbatté sul geniale poeta, ripercorrendo i luoghi che ne videro il passaggio, incontrando tutti quei personaggi che non hanno mai smesso di amarlo (tra questi il nipote di Wilde, Bono degli U2, Gore Vidal).
Ma ciò che più impressiona di questa Wilde Salomè è il fatto che l’attore-regista abbia creato un’opera in cui non c’è più distinzione tra arte e vita, l’umanità e la creatività si fondono in una comunione in cui la soglia che normalmente le separa si assottiglia fino a scomparire, e, in tal senso, pare aver ereditato dignitosamente la lezione di Bene, laddove si svincola da una logica museale dell’arte, sottraendo la messa in scena dallo svilimento di un’aura che inevitabilmente ne avrebbe limitato la portata. In altri termini, ripetendo il motto beniano: “Basta col produrre capolavori, bisogna essere capolavori”.
Ora è difficile valutare pienamente il livello raggiunto dall’operazione di Pacino, ma non si può non elogiare il tentativo, esperito con tutte le forze, – nella parte documentaristica del film questa componente emerge con chiarezza – di portare lo spettatore a vivere un rapporto osmotico con l’autore, producendo una decisiva valorizzazione del versante della fruizione. Pacino si mostra senza filtri, è se stesso fino in fondo, dialoga apertamente con il pubblico, che viene coinvolto nel movimento di perfezionamento dell’atto creativo – la bellezza esiste solo se ci sono occhi per guardarla – e crollano in tal modo quelle insopportabili barriere che inesorabilmente relegano l’osservatore in una posizione subordinata. C’è un’orizzontalizzazione dei rapporti attraverso cui viene ripristinata quell’eccedenza di senso che un’opera immortale come la Salomè di Wilde evoca, e l’autore (Pacino) diventa il medium tramite cui liberare una selva di significanti, in barba alla tirannia del significato. Pacino più che mettere in scena la Salomè pare abbia elaborato un saggio critico su di essa, meditando sulla potenza di un testo che non cessa di sgomentare, affascinare, turbare, ammaliare, come se fosse un lieve canto di sirena cui non sia possibile sottrarsi. Arriva persino nel deserto del Mojave (California) – ulteriore set in cui ambienta il dramma – per tentare di rivivere le ancestrali atmosfere del racconto di Wilde, ivi allestendo l’angusto pozzo da cui strepita il profeta Giovanni Battista, annunciando la venuta del Messia e ammonendo Erode ed Erodiade a non perpetrare altri crimini.
E poi Salomè: splendida la prova di Jessica Chastain, che con il biancore della sua pelle lattiginosa, gli occhi ingenui e provocanti al tempo stesso, la dizione precisa e impetuosa, strega il Tetrarca, soffocato dal desiderio per lei, e per la quale sarà costretto a decretare la dura sentenza per il prigioniero, sotto il fruscio del battito d’ali di un Angelo della Morte che incombe drammaticamente sulla lasciva corte. Un film, dunque, questa Salomè, significativo, che lascia un segno, quello del tentativo sovrumano di mettere fuori scena l’autore, che con la dovuta umiltà accondiscende a sparire, contro ogni residuo narcisistico, in favore della gratuità della bellezza, l’unico baluardo che (forse) ancora può salvarci (se avremo occhi per guardarla. E in tal senso anche lo spettatore è convocato a prestare il proprio decisivo contributo).
Grazie all’illuminata politica distributiva di Distribuzione Indipendente di Giovanni Costantino, e all’accortezza immarcescibile di CG Entertainment, Wilde Salomè è finalmente disponibile in dvd, in formato 1.85: 1, con audio in italiano e originale (DD 5.1 e 2.0) e sottotitoli opzionabili. Nei contenuti extra è presente il trailer del film.
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