Sinossi: Dopo aver trascorso molti anni in Europa, Tilly Dunnage ritorna a Dungatar, sua città natale nella rurale Australia, per accudire la madre sola e malata. Fu proprio la madre a mandare in Europa Tilly, quando aveva dieci anni, a causa di false accuse di omicidio. Tilly ha studiato da stilista a Parigi e mette a disposizione delle donne del posto la sua esperienza di sarta esperta, aiutandole a migliorarsi e a farsi valere. Proprio grazie alle sue creazioni di moda, Tilly avrà modo di vendicarsi dei torti subiti in passato.
Recensione: Dungatar, un polveroso scorcio d’Australia negli anni 50. Con tacchi e cappello in stile parigino Tilly Dunnage, dopo un lunghissimo tour nelle più importanti capitali della moda, abbandonati a malincuore Vionnet, Dior e Balenciaga, è tornata, ed ha un piano. Aveva lasciato quel minuscolo agglomerato di case e conservatorismo 15 anni prima, macchiata da una grave colpa di cui tutti ancora parlano ma nessuno conosce davvero. Ora lei è di nuovo lì, a prendersi cura della vecchia ed eccentrica madre, Molly la pazza, a punzecchiare la grettezza dei concittadini e a coltivare la propria vendetta.
La signorina Dunnage veste spesso di nero, non solo perché snellisce (lo sa bene anche la procace diva Kate Winslet), e da brava stilista è sempre attenta a bilanciarlo con altri colori più o meno vistosi. Se non c’è tono migliore del rosso fuoco per attirare l’attenzione di giocatori e abitanti durante una partita di football, il cappotto giallo della scena finale la illumina più del sole che brucia la steppa del Victoria. E con tessuti e tinte continua a giocare anche per le donne del piccolo borgo, dando libero sfogo al proprio genio creativo e alla vanità banale di voler sembrare più magre e più giovani, sghignazzando segretamente del desiderio fatuo di sollevare chiacchiere e stupore come si fosse appena uscite da riviste di moda o da cartoline autografate. Così comincia lo sfoggio risibile di tenue lingerie svolazzante, elaborati abiti da sera per raggiungere il vicino emporio e raffinate mise da cocktail per ancheggiare dalla piccola stazione ferroviaria alla farmacia, in un circo di piume e lustrini messo in piedi dall’ironia mordace di Tilly e dal talento della costumista Marion Boyce. Naturalmente tutte le altre hanno poco da dimenarsi contro lo stile inconfondibile della signorina Dunnage. Lei che ha lavorato con i più importanti nomi europei della moda, conosce fin troppo bene fogge e cuciture che riescano a valorizzarla, e Kate Winslet è il corpo da sogno che la traghetta fin nell’olimpo del desiderio incarnato.
Sfortunatamente a Tilly manca qualcosa. Non guanti, borse o cappelli, o qualche metro di pizzi e broccati (Margot Wilson, la costumista col compito di occuparsi esclusivamente della protagonista, il suo lavoro l’ha svolto in maniera egregia) bensì una sceneggiatura all’altezza dall’inizio alla fine.
Con l’oscuro passato e la maliziosa sensualità, Tilly vorrebbe abitare nei panni di una Gilda, di una Elsa Bannister, di Alice Redd o di entrambe le sorelle Sternwood, cucendosi addosso un’immagine che di noir non ha solo i vestiti ma soprattutto l’aura e le intenzioni. Eppure, se all’arrivo sembra promettente e alla partenza realizzata, al centro dell’intreccio c’è qualcosa che non torna. L’abito della femme fatale è forse troppo stretto per lei, i bottoni saltano, le lampo si scuciono e rivelano un personaggio troppo fragile, privo della statura immorale propria della galleria di eroine al contrario in cui vorrebbe inscriversi.
Dunque, nonostante l’omicidio, i trascorsi poco limpidi, la maledizione che pende sulla cima del villaggio, sembra ormai chiaro che la vocazione di The Dressmaker non è il noir. Anche perché si ride parecchio, soprattutto nella prima metà, tra le stramberie di Molly, magistralmente interpretata da Judy Davis, i travestimenti del sergente Farrat e l’esposizione impietosa dei tanti vizi e le poche virtù della gente del posto. Se di oscurità proprio si vuol parlare, allora sarebbe forse più lecito pensare ad una black comedy, viste le premesse, con sprazzi di rosa alla comparsa del bell’amante, il dolce Teddy, con muscoli e statura gentilmente concessi da Liam Hemsworth. Eppure, proprio quando gli spettatori si son lasciati andare alla levità della vicenda, ecco che inaspettatamente l’intreccio volge alla tragedia. Per carità, nulla è veramente inatteso, se dal principio pesa sulla storia il macigno della “colpa”, come, d’altra parte, i flashback ci ricordano di continuo, con la bella fotografia dai toni lividi di Donald McAlpine. A spiazzare sono il modo e il tempo scelti per annunciare un cambio di rotta davvero troppo brusco. Così poco dopo, neanche il tempo di elaborare la perdita, che si è già tornati alla girandola di costumi, recite e dispetti, in un vortice di eventi e stati d’animo che ha più la forma di un pastiche di generi, in cui non si sa bene con che occhi guardare la povera Tilly, trascinata in mezzo alla bagarre della rabbia e dell’amore, della malizia e della morale, della felicità e delle lacrime, e gli spettatori sono destinati a rimanere sempre colti alla sprovvista e lasciati a bocca asciutta.
Marica Lancellotti