Ci risiamo. Dopo David Bowie ieri è stata la volta di Prince, e così un altro grande della musica (e non solo) ci ha inaspettatamente, improvvisamente e prematuramente lasciati. A circa una settimana fa risalgono l’atterraggio di emergenza in Illinois durante un volo e il ricovero in ospedale per un’overdose da oppiacei (camuffata, inizialmente, da banale influenza). Poi, ieri, il ritrovamento del suo corpo nell’ascensore della residenza di Minneapolis, in circostanze ancora tutte da chiarire. Aldilà delle supposizioni, delle ricostruzioni, delle immancabili critiche (e chiacchiere) su ciò che è stato o non stato fatto e su ciò che si poteva o non si poteva fare, quello che resta oggi, il giorno dopo, è solo un’occasione per omaggiare e ricordare.
E il ricordo è quello di un artista eclettico, poliedrico, eccessivo in tutto, outsider sempre, che ha fatto ballare il mondo con gli oltre 50 dischi pubblicati, che ha stupito, scioccato, provocato, scandalizzato in tutti i modi e i mezzi a disposizione sempre e solo per sprigionare un’incontenibile libertà, che fosse d’espressione o sessuale o anche solo stilistica, una libertà forse anche vettore inconsapevole di quel disagio che solo i grandi precursori (e, quindi, inguaribili incompresi) possono sperimentare.
Il talento di Prince è stato uno di quelli inesauribili, impossibile da limitare, tant’è che già ai tempi del suo primo album la Warner si vide costretta a concedergli massima libertà: chiuso in sala di incisione per mesi, Prince ne uscì, a soli 19 anni, con un album pensato, ideato, prodotto, suonato e interpretato solo da lui. Era il 1978, e l’album in questione è For You. Ma è il 1984 l’anno in cui arrivò il successo vero, quello planetario di Purple Rain: Purple Rain l’album, svettato immediatamente sulle classifiche dei singoli e degli album, e Purple Rain il film, diretto da Albert Magnoli e interpretato dallo stesso Prince, vincitore di un Oscar per la miglior colonna sonora originale, che ha fatto qualcosa come 70 milioni di dollari d’incassi. Un vero e proprio cult per i fan del “Folletto di Minneapolis”, storia (a tratti autobiografica) del musicista The Kid e della sua travagliata ricerca del successo, della propria sofferta identità e dell’amore. Secondo Lisa Coleman, tastierista della band di Prince The Revolution, Purple Rain nasconderebbe infatti un significato di rinascita attraverso il viola, colore di cui si tinge il cielo all’alba, e la pioggia, da sempre metafora della purificazione. Fatto sta che Purple Rain è il concept con cui Prince ha dichiarato al mondo di voler costruire qualcosa con la sua musica. Il sequel del film, Graffiti Bridge, uscito nel 1990 stavolta per la regia dello stesso Prince, è invece l’esempio più evidente di quanto non sempre l’artista fosse pienamente compreso dalla critica: e la candidatura a ben 5 Razzie Awards ne è prova inconfutabile. Ma questo esordio non proprio esaltante alla regia (un insuccesso che non ha minimamente compromesso la carriera di Prince) non ha scoraggiato l’artista poliedrico che, sempre molto attento alla componente visiva e filmica dei propri videoclip, ha dedicato loro cure quasi maniacali, facendoli anche confluire nel 1994 in Chains O’Gold, una sorta di esperimento cinematografico in cui lo stesso Prince è protagonista della cornice narrativa. Ma non è qui che si esauriscono le esperienze di Prince con il mondo della celluloide, infatti da Paul Verhoeven (Showgirls) a Spike Lee (Girl 6 – Sesso in linea e Bamboozled), molte sono i registi che gli hanno affidato la composizione delle colonne sonore dei loro film, primo tra tutti Tim Burton per il suo Batman: avventura memorabile per l’impegno smisurato dedicato da Prince, per l’entusiasmo che lo ha spinto a partecipare in prima persona alle riprese del videoclip nelle vesti di Batman e Joker), e per il brano Batdance, a lungo al primo posto nelle classifiche statunitensi nel 1989.