Le serie televisive sono migliorate esponenzialmente negli ultimi anni. Impossibile stabilire quali siano state le migliori e perché. Segue una classifica di ottimi prodotti. Dal 2013 al 2015. Una per anno. Il “giudizio” è dettato da una commistione di fattori: regia, originalità, struttura della trama e così via.
Mr. Robot (id), creato da Sam Esmail, con Christian Slater e Rami Malek; USA, 2015, 45’ (episodio); cyber-thriller, thriller psicologico.
Nel 2015, Sam Esmail converte quello che sarebbe stato il suo secondo lungometraggio in serie: Mr. Robot. L’ampio consenso di critica ha spinto la HBO a richiedere una seconda stagione mentre la prima era ancora in corso.
Elliot Alderson (Malek) è un giovane ingegnere informatico. Morfinomane, depresso, sociofobico, Elliot lavora alla AllSafe, un’azienda di sicurezza informatica. Mr. Robot (Slater), un anarchico insurrezionalista, tira Elliot dentro fsociety, un gruppo di Hacker che ha come scopo quello di distruggere la Evil Corp. Questa corporazione – cliente della AllSafe – ha immagazzinato nei propri database i debiti di ogni singola persona. Distruggendo la Evil Corp, gli uomini saranno liberi dalla schiavitù del denaro.
La trama è un po’ scontata. Chiunque guardi con attenzione il primo episodio può intuire lo svolgimento degli eventi… tuttavia, questa prevedibilità è sopportabile. La serie riserva molti spunti geniali, come il piccolo monologo di QWERTY, il pesce di Elliot.
Elliot non è il classico hacker stereotipato – vedi quel mascellone di Hemsworth nell’ultimo Mann. Elliot sta malissimo ed Esmail si prende tutto il tempo che vuole per descrivere la sua sofferenza.
La regia è perfetta per la storia. La regola dei terzi viene soppressa. In un campo-controcampo, i personaggi vengono ripresi o al centro o a sinistra dell’inquadratura. Nella serie, vengono ripresi a destra, lasciando un grande vuoto nell’immagine. Vuoto di cui Elliot soffre.
L’ultimo episodio della prima stagione cita ampiamente Kubrick. Dopo i titoli di coda c’è un lungo piano sequenza che ci introduce – seguendo un personaggio la cui identità non posso rivelare – in una villa, dove si sta svolgendo un ricevimento decisamente borghese. Vi ricorda nulla? Forse una delle sequenze più famose di Eyes Wide Shut?
Mr. Robot è una serie da vedere? Sì. È per tutti? No. I tecnofobici potrebbero annoiarsi. Chiunque, però, dovrebbe visionare il Pilota. Solo per vedere come va realizzato un prodotto che funziona, indipendentemente da quello che racconta.
Mozart In The Jungle (id) creato da Roman Coppola, Jason Schwartzman e Alex Timbers, con Gael García Bernal, Lola Kirke e Malcolm McDowell; USA, 2014, 30’ (episodio); commedia, drammatico.
Jason Schwartzman e suo cugino Roman Coppola hanno spesso collaborato con Wes Anderson. Il loro adattamento dell’autobiografia di Blair Tindall non poteva che essere interessante.
Hailey Rutledge è un’eccezionale oboista appena entrata alla New York Philharmonic. Seguendo Hailey, scopriamo le vicende dei vari componenti dell’orchestra. Il nuovo ed eccentrico direttore (Bernal si è portato a casa un Golden Globe per la parte); il vecchio direttore (interpretato da un sempre gradevole McDowell) e così via.
La vicenda è ben congegnata. Ai personaggi ti affezioni. La realtà di Mozart In The Jungle ha poco a che fare con la nostra. Come per i film di Anderson, del resto. Nella serie, l’amore per la musica colta – cosa che tocca tutti, non solo i musicisti – arriva al parossismo. Così, durante una festa, qualcuno fa uno scratch sulla Carmen di Bizet. Oppure si tatua Franz Liszt sull’avambraccio.
Mozart in The Jungle possiede un buon repertorio musicale. Cosa non così scontata. La maggior parte dei film usa il solito repertorio commerciale – semplici brani di Chopin, Debussy etc. Nella serie ascoltiamo Sibelius, Rimskij-Korsakov… brani sì “commerciali”, ma che faranno sorridere il musicofilo.
È certamente un prodotto di nicchia, ma non per questo è un prodotto dimenticabile. Non avrebbe vinto il Golden Globe come miglior serie o commedia musicale, altrimenti.
Hannibal (id), creata da Bryan Fuller, con Mads Mikkelsen, Hugh Dancy e Laurence Fishburne; USA, 2013, 43’ (episodio); poliziesco, thriller psicologico.
Le belle idee di Bryan Fuller hanno vita breve. Dead Like Me è durata due stagioni. Wonderfalls una sola. Hannibal, finora, è la sua serie più duratura: tre stagioni… Ma che tre stagioni! Fuller ha dimostrato non solo di saper creare gradevoli melensaggini come Pushing Daisies, ma di riuscire nella più pericolosa delle attività: rielaborare una storia già apprezzata dal pubblico.
Will Graham (Dancy) lavora come profiler per l’FBI. È il migliore nel suo campo, perché la sua profonda empatia gli permette di entrare nella mente di qualunque assassino seriale. Questa dote, però, sta schiacciando Will. Jack Crawford (Fishburne), il suo capo al dipartimento Scienze Comportamentali, gli affianca lo psichiatra criminale Hannibal Lecter, uomo che cela una personalità decisamente oscura. Tra Graham e Lecter nascerà un rapporto particolare e contorto, che arriverà perfino all’amore.
Benché il ruolo appartenesse originariamente a Brian Cox (noto in Manhunter – frammenti di un omicidio come “Lecktor”) è stato Anthony Hopkins a dare un volto al cannibale. Ammettiamolo: ogni volta che lo psichiatra deve essere interpretato da qualcun altro, il confronto nasce in automatico. Nella serie abbiamo Mikkelsen. Il suo Lecter ha uno sguardo penetra l’anima, sembra privo di emozioni, si muove elegantemente, chirurgicamente, come se la sua mente avesse già previsto tutto. È perfetto.
La regia è opprimente. I colori sono molti, ma sono scuri. La fotografia taglia i mezzi-toni, rendendo tutto omogeneo e ben definito. Troppo definito. Questo modo di girare rende tutto inquietante: una cucina, un salotto… Oppressione, appunto. Della quale il protagonista soffre. La messa in scena delle “ricostruzioni” di Graham è tecnicamente degna di nota. Rallenty, Reverse… cose già viste, ma che non stancano mai.
Hannibal è una serie imperdibile, non solo per i fan del Dottor Lecter, ma per tutti i fan dei thriller psicologici. È contorto, talvolta difficile da seguire. Ma ne vale la pena.
Oscar Francioso