«Remake di un omonimo film di George A. Romero datato 1973, “La città verrà distrutta all’alba” di Breck Eisner può vantare l’approvazione dello stesso regista dell’originale cult».
Remake di un omonimo film di George A. Romero datato 1973, la pellicola di Breck Eisner può vantare l’approvazione dello stesso regista dell’originale cult — forse anche perché il prolifico Romero appare fra i produttori esecutivi — il quale ha parlato di “reinterpretazione” del suo lavoro di trent’anni fa, apprezzabile soprattutto per le differenze, gli scostamenti operati rispetto al film di partenza. Difficile dire se Romero si riferisca all’approccio narrativo — che in questa nuova versione segue passo passo le vicende di un gruppo di sopravvissuti alla contaminazione biologica di una cittadina americana, che trasforma la quasi totalità della popolazione in una sorta di lucidi zombie affamati di sangue, e sceglie di non raccontare mai il punto di vista delle forze armate e del governo USA, colpevoli della diffusione del virus. L’opzione battuta da Eisner contribuisce a focalizzare la narrazione sui protagonisti, le vittime della catastrofe, e dipinge un governo cieco e insensibile, incapace di accettare le proprie responsabilità e ammettere i propri errori. Incapace, si potrebbe dire, di prendersi cura dei cittadini che rappresenta. Un tema certamente caro a Romero, che deve averne trovato riscontro nella visione del film. Tuttavia è inevitabile che qualcosa vada perduto, perché non siamo più nel 1973, e perché gli Stati Uniti sembrano aver preso una strada diversa, recentemente.»
Il film è un onesto e ben girato horror d’azione, con venature fantascientifiche, che sconta un progressivo calo della tensione nella seconda parte dovuto alle intrinseche limitazioni del soggetto. I protagonisti in fuga devono scampare a continue e ripetute imboscate tese di volta in volta dai “folli” — i “crazies” del titolo originale — e dalle forze armate, che hanno ricevuto il compito di sterminare tutti i superstiti, anche coloro che, sopravvivendo alle prime 48 ore di contagio, hanno dimostrato di essere immuni al virus. Benché sceneggiatura e regia si impegnino a tenere alto il ritmo, cercando nuove modalità per far saltare sulla poltrona lo spettatore (ampio infatti l’uso dei suoni improvvisi, a tradimento, i “pungoli per il bestiame”, come li chiamava Carpenter), a lungo andare la reiterazione mostra la corda. Eisner gioca allora la carta della paranoia, che si sostituisce all’adrenalina della prima metà di film, e concentra l’attenzione sulle dinamiche relazionali fra i quattro sopravvissuti: chi sarà stato contaminato fra loro, di chi ci si può veramente fidare? Qui le scelte narrative peccano forse di scarso coraggio, virando verso le attese più prevedibili.
Quello che non funziona in questo apprezzabile lavoro — senza soffermarsi troppo sulle interpretazioni dei protagonisti principali, Timothy Olyphant e Radha Mitchell — è il gap culturale con la società dalla quale nasceva l’originale, quella dimensione cospirativa e paranoica da guerra fredda che rese memorabili film di genere come La cosa da un altro mondo di Niby e Hawks, L’invasione degli ultracorpi di Siegel o La notte dei morti viventi dello stesso Romero. L’invito a “tenere d’occhio il cielo” oggi non vibra più, la paura soffocante della bomba non sortisce lo stesso effetto, anzi, rende leggermente datata una sequenza finale anche ben costruita. Eppure, in circostanze sociali e politiche non dissimile da quelle odierne, Cameron aveva saputo fare di meglio, costringendo a rabbrividire chiunque abbia guardato la prima volta la sequenza della distruzione nucleare in Terminator 2. E non è sufficiente, per rimpolpare paure collettive come quelle che “gonfiavano” l’effetto dei film di allora, attingere ai terrori globali del contagio virale: il risultato, necessariamente, si disperde fra molti film analoghi incapaci di rinnovare tematiche e meccanismi dell’horror. Un genere che per fortuna, a differenza dei suoi protagonisti, non morirà mai.
Gianluca Wayne Palazzo
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