Sinossi: Il film racconta dei fatti avvenuti in Libia l’11 settembre del 2012, quando un gruppo di terroristi attacca a Bengasi l’US State Department Special Mission Compound e un distaccamento della CIA situato poco vicino. Sei agenti della sicurezza americani fronteggiano l’irruzione evitando che il numero di danni e vittime diventi catastrofico
Recensione: 13 Hours:The Secret Soldiers of Benghazi è un war-movie che non delude. Una grande prova registica per Michael Bay, che alle prese con una storia vera, e fortemente drammatica, riesce a non perdere mai di vista la linea narrativa e l’efficacia delle sequenze senza sacrificare nulla della realtà della vicenda.
Siamo in Libia nel 2012, durante l’anniversario dell’11 settembre e qualcosa deve accadere. Arriva l’ambasciatore americano con incosciente baldanza in una terra distrutta. Della città di Bengasi resta poco, ma, come spesso si vede anche nei reportage giornalistici, la gente continua a vivere in maniera quanto più possibile simile al normale, una vita fatta di piccole quotidianità. I pastori locali, hanno poche e sparute pecore a pochi passi da una base americana, ma continuano con i ritmi di sempre. Un luogo ai limiti del tempo e della storia, dove restano soprattutto poche certezze.
Una delle chiavi del film è il dubbio. Nessuno può essere certo di chi è l’altro. Quali sono gli amici o i nemici? Nessuno può veramente saperlo, le bandiere e i volti sono simili. Una parte dell’esercito libico è con gli americani, ma come riconoscerli? Solo il gesto di parlare al telefono col pollice e mignolo sembra far riconoscere gli alleati. Continuamente i soldati, non sempre regolari, vivono l’inquietudine dell’incertezza, che distrugge come e quanto la battaglia.
La location dei nostri invece ci presenta due complessi americani a confronto, l’elegante residenza del consolato con prato all’inglese dove alloggerà l’ambasciatore che, nella desolazione delle case bombardate, sembra uno quasi uno sfregio, ma che comunque resta un’oasi e baluardo di civiltà. Dall’altro lato la residenza squallida e con pochi confort dei combattenti, i security operator americani, un quadrilatero contornato da fluttuanti residui di tende di plastica a brandelli di vecchie colture, che, per assurdo, riabilitati dal vento, diventano quasi poeticamente belli.
Con ammirevole equilibrio Bay giustappone scene di misurato realismo e la vita quotidiana di un gruppo di uomini che si confrontano ogni giorno con la morte e soprattutto con questo nuovo tipo di guerra, che lascia stacchi lunghi e terribili di estenuanti attese di un attacco atteso e paventato.
Ottime le prestazioni degli attori, anche se un po’ tutti uguali, con i volti simili in un casting che vuole solo barbe lunghe. I giovani soldati che vengono raccontati non sono semplicemente eroi ma molto spesso solo tragicamente uomini. Il regista riesce persino a inserire, nel dramma, qualche momento più leggero e ironico che rende il film equilibrato e umano. Un bilico, a volte feroce, tra i caratteri dei personaggi da raccontare e una vicenda incalzante e tormentosa, dove i sei protagonisti, tutti asserragliati sui tetti, combattono fino allo stremo.
I produttori del film sostengono, tra l’altro, che il regista ha fatto nel film una precisa dichiarazione politica ma del tutto indiretta. È la posizione terribile di uomini che si sentono come i soldati della Battaglia di Alamo, abbandonati da chi dovrebbe o potrebbe difenderli e “esfiltrarli” dalla Libia e da una situazione che hanno affrontato già con fin troppo coraggio.
Un taglio molto originale, per un film americano, è quello che svela l’inefficienza delle agenzie e anche l’atteggiamento dei personaggi che è tipico della realtà; uno stile semplice che è quello di uomini veri: degli antieroi. Un’attesa piena di tensione, terribile, ma senza eccessi narrativi. Solo un pugno di uomini in trappola, stretti tra le carenze di decisioni del comando di Bengasi che non invia truppe di soccorso, di quelle del Pentagono e del silenzio del Presidente. Un film costruito in modo da lasciare gli spettatori a trarre le proprie conclusioni. Un piccolo capolavoro da vedere.
Alessandra Cesselon