Un chiodo nel mio stivale, monologo ispirato a V.V. Majakovskij, è stato in scena al Teatro Sala Uno (Roma) dal 5 al 7 aprile. Lo spettacolo è nato da un’idea di Daniel Terranegra che lo vede in scena diretto da Reza Keradman.
Si tratta di uno studio sulle possibilità di riproporre concetti poetici e politici universali che viaggiano su di un filo rosso, la rivoluzione. Attraversando la vita del poeta, le sue avventure, le sue passioni e la sua fede per arrivare ad un mondo nuovo, o almeno per crederci, e sbarazzandosi del pensiero comune per spalancare le porte alla Poesia, il monologo ripercorre il sogno di un ragazzo russo che non aveva presagito il suo avvenire e che, suo malgrado e con maggiore forza rispetto a qualsiasi altro coetaneo, è entrato a far parte della schiera delle leggende giovani mondiali, senza menzogne né sotterfugi.
Il rigoroso monologo di Daniel Terranegra ripercorre il sogno di un ragazzo russo, Vladimir Vladimirovič Majakovskij, quello di fare a pezzi la favola dell’arte apolitica, la barzelletta dell’estetica senza mandato sociale, le tristezze di una vita che volesse solo continuare a sentire la vita, continuare senza uno scopo, in modo estetico. Assistendo a questo lavoro si esce dal teatro persuasi che, per una volta almeno (e così per sempre se c’è stata un volta almeno), la rivoluzione non fa più paura; non perché essa si edulcori attraverso la trasfigurazione dell’arte, ma perché ‘Rivoluzione’ si svela un concetto più ampio di quello legato alla lotta di classe, e il raggiungimento incruento dell’uguaglianza di tutti i cittadini ridiventa, per noi, una possibilità concreta.
Un chiodo nel mio stivale tra i molteplici meriti possiede quello di ricollocare in modo esatto il sogno di un’uguaglianza nel cielo stellato di uomini, che – intellettuali contadini, contadini intellettuali – durante la lunga notte zarista cominciarono a vedere lampeggiare per primi il chiarore di un mattino nuovo. Dove? Nella lingua, e in essa solo grazie a parole semplici come un muggito e ad una scrittura fatta con inchiostro di sterco. Il monologo parla, e lo fa senza straparlare mai nemmeno per un istante, e tace, e tace e parla come fa l’olio di un’icona non disturbato dai faretti di un museo, ma intravisto vibrare tra i fili ascendenti dell’incenso, e pulsa fin dai primi istanti col cuore che vi si svela nella seconda parte, quando una poesia aiuta il giovane attore italiano a raccontare la morte del giovane poeta russo.
Dopo essere stato a casa sua ed averlo visto sul letto di morte Pasternak, rievocando la tragedia Vladìmir Majakòvskij («ascoltai completamente assorto con cuore in gola trattenendo il fiato, non avevo mai udito qualcosa di simile») testimonia: «il suo volto era identico alla nostra Russia, erano due gemelli». Di chi parla Pasternak? Dell’uomo? Dell’opera? Come era semplice tutto questo – sentiamo risuonare in sala la voce dell’attore ma non sappiamo più chi o che cosa parli – l’arte si chiamava tragedia e la tragedia si chiamava Vladìmir Majakòvskij: il titolo nascondeva la scoperta genialmente semplice che il poeta non è l’autore, ma l’argomento della lirica che in prima persona si rivolge al mondo, il titolo non era il nome dell’autore, ma il cognome del contenuto. Non la rivoluzione spaventa ora, ma il poeta, e che il poeta che non tocchi più niente e nessuno… sarebbe insopportabile, per lui e per tutti, e sarebbe meglio abbandonasse il mondo il prima possibile. Il monologo di Daniel Terranegra si svela allora un dialogo, perché la comunicazione dell’arte non potrebbe non essere che – questo per Majakòvskij – il tormentato amore che si ha verso quelli che si mettono in ascolto dell’opera.
Michele Bianchi