«“La vita in tempo di guerra” (il titolo originale del film) è, secondo Todd Solondz, una vivace rassegna di miserie: che fare? Perdonare o dimenticare?».
“La vita in tempo di guerra” (il titolo originale del film) è, secondo Todd Solondz, una vivace rassegna di miserie: la soglia che separa il pubblico dal privato si assottiglia fino a svanire, e ciò che emerge è la trasversalità di un orrore che s’insinua impudicamente ovunque, saturando qualsiasi spazio vitale. Il disagio psichico accomuna le vite di tre sorelle di una famiglia ebraica statunitense, e il taglio umoristico che il regista sapientemente utilizza per restituire la drammaticità della loro condizione, anziché attenuare, amplifica a dismisura la gravità delle situazioni rappresentate.
Pedofilia, schizofrenia, perversione, bipolarismo: tutto l’inventario delle patologie del manuale DSM (Diagnostic and Statistical Manualof mental disorders) viene sventagliato a suon di aberrazioni, e di ciò non ci si può scandalizzare. D’altronde è proprio la massiccia diffusione dei disturbi che affliggono gli individui a palesare la presenza di una causa strutturale, che provoca una sofferenza non quantificabile. L’errore del Vietnam, la falsa questione dell’esportazione della democrazia con tutte le guerre annesse, l’edonismo, la teleologia dell’aumento indefinito del profitto, la violenza dello “spettacolo diffuso, concentrato e integrato” della kermesse postmoderna: ecco il quadro dell’eziopatogenesi dei sintomi. Il problema non è neurobiologico, ma politico.
Che fare? Perdonare? Dimenticare senza perdonare? E perdonare chi?
Sono domande queste che eccedono le riserve di senso. Diciamo subito che non esiste un Male radicale, sottratto alla possibilità del perdono per definizione, ma che il Male diviene irredimibile dalla prospettiva di un soggetto coinvolto all’interno di una procedura di verità, vale a dire dalla prospettiva del Bene. Il simulacro, il tradimento e la tentazione della totalità sono le modalità attraverso cui si compie quell’errore supremo che fa precipitare dall’entusiasmo alla fase maniacale, realizzando l’inferno in terra. Ma il male è sempre mancanza d’essere, è privazione, non è autonomo né trascendente e, pertanto, lo si può evitare. Non possiamo averne una religiosa paura e per questo poi organizzare un apparato normativo che ne indichi i contorni, cercando di neutralizzarlo a tutti costi. Piuttosto è perseverando nella verità, e quindi nel Bene, assumendoci tutti i rischi che questa scelta comporta, che possiamo prenderne le distanze, sapendo che non ne saremo mai definitivamente al riparo.
Dimenticare è negare, e tutti conosciamo le conseguenze che ne derivano: il ritorno del rimosso, dello spettro.
Riguardo al perdono, le parole del filosofo francese Jacques Derrida forniscono un’indicazione illuminante: “Se penso all’idea del perdono così come l’abbiamo ereditata dalla nostra cultura giudaico-cristiano-islamica, il perdono dev’essere una pura grazia. Dev’essere libero e offerto in maniera incondizionata. Per perdonare bisogna innanzitutto che il perdono non sia richiesto, che nessuna parola lo prenda in consegna, lo esprima, lo dica, lo raccolga. Il perdono dev’essere silenzioso, invisibile, discreto. Deve sfuggire al linguaggio e non deve neppure avere un senso. Se avesse un senso potremmo capire come si orienta e come appare a una coscienza. Ma tanto il dono quanto il perdono, dal momento in cui si danno nell’esistenza, spariscono. Abbiamo dunque in una stessa esperienza – intendendo questa nel suo senso più ampio – insieme una possibilità e un’impossibilità. D’altra parte, se non avessi nel cuore qualcosa che mi porta a donare o a perdonare non potrei nemmeno constatare l’impossibilità di ciò di cui parlo. Ma c’è un desiderio, un’idea del dono e del perdono che è irriducibile all’esperienza della loro impossibilità. E questo ci permette di andare avanti, continuando a donare e a ringraziare sinceramente sapendo che non è possibile, ma che oltre quest’impossibilità c’è qualcos’altro”.