Il documentario immersivo di Gianfranco Rosi è necessario oggi più che mai. In un periodo in cui l’Europa reagisce in maniera più o meno favorevole all’accoglienza di migliaia di rifugiati richiedenti asilo, Fuocoammare racconta Lampedusa, isola siciliana più vicina alla costa tunisina che al sud d’Italia, da anni approdo di migranti in fuga verso il futuro. Con una troupe leggera, Rosi si trasferisce sull’isola e osserva, partecipa alla vita dei lampedusani, nella cui quotidianità c’è l’arrivo di barconi o gommoni fatiscenti con a bordo centinaia di profughi.
“La prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza dolore e spavento”, canta De Gregori in Titanic. Questi barconi spesso condividono con il famoso transatlantico l’infame destino di affondamento e ne ripetono meschinamente la suddivisione in classe. Si fa il possibile per accoglierli e aiutarli a toccare terra sani e salvi, i più fortunati necessitano cure mediche urgenti, mentre quelli più sfortunati, i viaggiatori-uomini di terza classe dal medico riceveranno solo un’analisi cadaverica.
Rosi, documentarista di geografie antropologiche e vincitore del Leone d’Oro con Sacro GRA, riporta il discorso dell’immigrazione su una dimensione umana. A intraprendere il cammino della speranza per la via del mare o della terra sono esseri umani con una storia e una ragione di fuga, perché nessuno lascerebbe la propria casa se non fosse costretto. Sono uomini, donne, anche incinte, e bambini che pagano fior di quattrini per un viaggio disumano e irragionevolmente mortifero. Può suonare retorico, ma non lo è affatto, perché Rosi evita la trappola dell’immagine costruita intorno al vuoto sensazionalista. Mostra i fatti, inequivocabili, e ci avvicina ai volti, facilmente dimenticati dietro numeri e statistiche di politici miopi. O dagli occhi pigri, come Samuele, il protagonista-simbolo di uno stato d’animo di un’isola che è metafora di sogni e aspettative disattese. 12 anni e carattere da vendere, Samuele ci insegna che per costruire e lanciare con la fionda ci vuole passione, come in tutte le cose. Rosi accende la camera e lo riprende nella vita quotidiana, tra i compiti d’inglese fatti controvoglia, i giochi alla guerra contro le pale di fichi d’india, prima fatte a brandelli poi rimesse insieme col nastro adesivo, un piatto di spaghetti al sugo di calamari pescati freschi e mangiato con voracità, la stessa con cui morde la vita fatta di gioco e apprendimento.
L’oculista gli dice che ha un occhio pigro che deve esercitare, il medico, lo stesso che si prende cura dei migranti, gli dice che il fiato corto è dovuto a un po’ d’ansia. Il piccolo Samuele, che sente e si interroga sull’oppressione che porta nel petto, è una figura allegorica inconsapevole incarnante un sentimento condiviso. Come lui, vorremmo che l’Italia, l’Europa e le potenze mondiali tutte esercitassero il proprio occhio pigro per portarlo a vedere chiaramente. Vedere chiaramente le “Lampedusa” di oggi, con le loro tragedie umanitarie, tra le più grandi di tutti i tempi. Sull’isola siciliana, estesa su una superficie di circa 20 km quadrati, Rosi mostra anche come due realtà, ossia la lotta per la sopravvivenza dei migranti e la quotidianità ordinaria degli isolani, convivono senza necessariamente incontrarsi, ancora una metafora di quanto accade nel resto del mondo.
Francesca Vantaggiato