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Trieste Film Festival: The Wednesday Child di Lili Horváth

The Wednesday Child è il film vincitore del Concorso lungometraggi del 27° Trieste Film Festival: per quanto in chi scrive siano rimaste alcune perplessità, relativamente alla costruzione drammaturgica dell’opera, il pubblico ha scelto di assegnare il Premio Trieste (euro 5.000) all’esordio dell’ungherese Lili Horváth, storia di una giovane madre che nella periferia di Budapest lotta disperatamente per ottenere la custodia del figlio.

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Non è certo una novità che ai festival cinematografici i premi alimentino discussioni. Ed è anche normale, tutto sommato. Perciò di fronte ai premi determinati dal giudizio del pubblico, all’edizione del Trieste Film Festival da poco conclusasi, qualche piccola puntualizzazione ci sentiamo brevemente di farla: se abbiamo accolto con grande soddisfazione il riconoscimento tributato ad Under the Sun di Vitalij Manskij, quale miglior documentario, la reazione non è stata esattamente la stessa quando ci è stato comunicato il vincitore tra i film di finzione. Innanzitutto perché c’erano almeno due opere, entrambe con una presenza femminile dietro la macchina da presa ed entrambe, curiosamente, di provenienza baltica, che hanno saputo generare in noi emozioni di gran lunga maggiori: The Summer of Sangaile della giovane regista lituana Alanté Kavaïté, ed Ausma, la cui realizzazione si deve invece a una cineasta lettone decisamente più esperta e quotata, Laila Pakalnina.

Ad ogni modo (come a confermare una tendenza in sé apprezzabilissima) è stata lo stesso una donna, per giunta esordiente, a vincere il Concorso lungometraggi del 27° Trieste Film Festival: difatti il pubblico ha scelto di assegnare il Premio Trieste (euro 5.000) all’esordio dell’ungherese Lili Horváth, The Wednesday Child (A szerdai gyerek), storia di una giovane madre che nella periferia di Budapest lotta disperatamente per ottenere la custodia del figlio. Cosa è però che non ci ha convinto fino in fondo, in un racconto cinematografico potenzialmente così toccante?
I motivi di perplessità sono diversi. Ma possono essere ricondotti perlopiù al carattere un po’ troppo disarticolato, frammentario, incostante, di una sceneggiatura che pare animata dalle migliori intenzioni, nell’approcciare scenari di desolazione urbana e vite ai margini, ma che poi ricade nella trappola dei luoghi comuni, dei personaggi tagliati con l’accetta, delle accelerazioni drammatiche buttate lì come a voler scioccare lo spettatore, più che in funzione di un quadro comportamentale realmente coerente, credibile.

Sono soprattutto i personaggi maschili coi quali deve rapportarsi la protagonista Maja, diciannovenne inquieta che vorrebbe porre una cesura netta col proprio passato da sbandata, a costituire l’anello debole del racconto. Il suo presente ha purtroppo quale punto di riferimento primario il coetaneo Krisz, un compagno di vita tanto aitante quanto immaturo, violento, irresponsabile, che tra l’altro si disinteressa totalmente del loro figlioletto, affidato non a caso dai giudici alle cure di un istituto. Gli ameni quadretti costituiti dalle visite di Maja al bambino, visetto adorabile ma costantemente spaesato, intristito, rappresentano ad ogni modo le scene più sincere e coinvolgenti del film. Mentre al contrario è proprio il personaggio perennemente sopra le righe di Krisz, quasi un Ivan Drago magiaro dagli improvvisi scatti di gelosia, nonché dall’espressione facciale monocorde e costantemente accigliata, ad appiattire la narrazione al suo solo apparire. E non è che le cose vadano meglio con la figura più sensibile dell’operatore sociale che, dopo un approccio alquanto burrascoso, cercherà di sostenere Maja nella sua riabilitazione arrivando pure a invaghirsene, perché anche qui gli stereotipi e le forzature si sprecano.
Insomma, l’anno trascorso dalla visione di un altro film ben recepito a Trieste ma non privo di un analogo tocco ruffiano e furbetto nello script, ossia il pluripremiato The Lesson dei bulgari Kristina Grozeva e Petar Valchanov, ci porta a individuare in entrambi i titoli un rischio comune, incalzante: l’eccessiva enfasi emotiva concessa a situazioni sociali degradate, con in primo piano le crisi attraversate da personaggi fragili e al contempo mai domi, la cui lotta per un possibile e di sicuro auspicabile riscatto rischia però, complici certe scorciatoie narrative, di andare incontro a sviluppi poco credibili. Per concludere, sintetizzando il concetto: in entrambi i casi la forza di un cinema a sfondo sociale come quello che autori come Ken Loach o i Dardenne, da differenti angolazioni, hanno portato avanti in questi anni, appare distante anni luce.

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