In Sala

Good Kill

Andrew Niccol realizza un film fortemente politico, in cui non esita a definire crimini di guerra le azioni sconsiderate che il governo statunitense conduce con i droni nella sua fantomatica guerra al terrore. Attraverso la dialettica che si instaura tra i diversi personaggi emerge anche la tesi che quel tipo di guerra produce l’effetto opposto a quello dichiarato, fomentando nuovo odio e, dunque, nuova manodopera per il terrorismo anti-statunitense

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Sinossi: Il film racconta la storia del Maggiore Tommy Egan, un pilota di caccia con una lunga esperienza sul campo in Afghanistan e Iraq. La precisione, l’attenzione ma anche la paura e l’adrenalina caratterizzano le giornate dell’uomo che, ad un certo punto, si trova costretto a rivoluzionare le sue abitudini. Dagli aerei e dai cieli oltreoceano, Tommy si troverà a lavorare a pochi km di distanza dalla sua casa e dalla sua famiglia a Las Vegas, in un cubicolo comodo e accogliente, a pilotare aeromobili a pilotaggio remoto, più comunemente noti come droni.

Recensione: Dai tempi di Berretti Verdi (1968) di John Wayne la percezione della morte da parte della società statunitense è radicalmente mutata. Anzi, per dirla tutta, già quel film era uno degli ultimi tentativi di combattere il rifiuto della morte che era già egemone nella cultura di massa occidentale. Si, perché la guerra del Vietnam ha trovato l’opposizione non solo di chi condannava l’imperialismo yankee ma anche di chi non accettava di pagare un prezzo così alto, in termini di giovani vite umane connazionali, per affermare la propria potenza sul resto del mondo. Era già diventata insopportabile l’immagine delle bare a stelle strisce che uscivano dai cargo militari, poeticamente riassunta nel verso della canzone di De Andrè: “Hanno rimandato a casa, le loro spoglie nelle bandiere,  legate strette perché sembrassero intere” (da La collina, 1971). E in Good Kill si fa esplicito riferimento a quest’immagine per indicare quale sia l’enorme vantaggio, in termini di consenso di massa, l’utilizzo dei droni. Per capire quanto sia importante il ruolo del cinema nella rappresentazione della morte in guerra si pensi all’estremo opposto di Berretti Verdi ovvero Salvate il soldato Ryan (1998) di Steven Spielberg che, invece, punta tutto sul mettere in iper-evidenza iconografica la brutalità della guerra.

Andrew Niccol realizza un film fortemente politico, in cui non esita a definire crimini di guerra le azioni sconsiderate che il governo statunitense conduce con i droni nella sua fantomatica guerra al terrore. Attraverso la dialettica che si instaura tra i diversi personaggi emerge anche la tesi che quel tipo di guerra, creando enormi danni collaterali tra i civili, produce l’effetto opposto a quello dichiarato, fomentando nuovo odio e, dunque, nuova manodopera per il terrorismo anti-statunitense.

Attraverso la storia narrata da Good Kill si coglie nettamente il nesso che intercorre tra una guerra non condotta “in presentia” e la facilità con cui si accetta la morte degli innocenti, ma è interessante anche perché introduce un’altra tematica: quella dello sguardo sulla morte. A noi tutti sembrano eccessive le migliaia di morti di civili causate dai droni ma non dobbiamo dimenticare i milioni di morti civili causati dalla bombe sganciate dagli aerei nelle guerre precedenti, si pensi solo alla seconda guerra mondiale. Dunque, perché queste morti, certamente enormemente minori in numero,  disturbano (almeno quella parte della popolazione che ancora riflette su questo) così tanto? È improbabile che questo sia dovuto ad un aumento di sensibilità e umanità nelle nostre società avanzate. È, invece, con tutta probabilità, l’esito di un’altra innovazione della guerra moderna: la possibilità di guardare in faccia la persona che si sta per uccidere. I moderni droni, infatti, sono dotati di potentissime videocamere che riescono a inquadrare anche i dettagli del volto delle vittime. Dunque, se da un lato si allontana il corpo del carnefice da quello della vittima, si avvicina lo sguardo dell’uno sull’altro. I generali di queste nuove guerre hanno già capito quanto sia importante allontanare questo sguardo sulla morte, si pensi a quello che è accaduto al fondatore di Wikileaks, Julian Assange, e ai militari che gli hanno passato i video delle esecuzioni sommarie (ed errate) effettuate dai piloti a stelle e strisce.

In maniera collaterale viene sviluppata una riflessione anche sulla cosiddetta sindrome post-traumatica dei reduci di guerra. Ma su questo versante è stato già detto molto in tutte le varianti, da Rambo (1982) di Ted Kotcheff a The Hurt Locker (2008) di Kathryn Bigelow,  e qui non si aggiunge nulla di nuovo.

Sebbene la tematica della guerra a distanza e dello sguardo sia di primaria importanza nel dibattito sulla post-modernità e di grande drammaticità, gli stilemi utilizzati dal regista, anche sceneggiatore e produttore, ammiccano pesantemente a quelli superficiali e pop dell’action movie e del dramma blockbuster. Anche i dialoghi e le scene risentono di cliché abusati, così come i personaggi sono sviluppati in modo sommario e semplificato. Ciò nonostante i contenuti vengono centrati e, quindi, non resta che sperare che quello che appare come un difetto per il cinefilo possa essere una possibilità in più di riflessione per un pubblico più vasto.

Pasquale D’Aiello

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