Sinossi: Poco dopo la fine della Guerra civile, una diligenza corre attraverso il Wyoming innevato. Il cacciatore di taglie John Ruth e Daisy Domergue, la donna che ha catturato, sono diretti a Red Rock dove l’uomo consegnerà la latitante alla giustizia. Lungo la strada incontrano due uomini a piedi: il maggiore Marquis Warren, ex-soldato di colore divenuto un famigerato cacciatore di taglie, e Chris Mannix, un rinnegato del Sud che sostiene di essere il nuovo sceriffo di Red Rock. Una bufera di neve costringe i quattro a cercare rifugio nell’emporio di Minnie ma, una volta arrivati, non vi trovano la proprietaria, bensì quattro sconosciuti: il messicano Bob che si occupa del rifugio mentre Minnie è in visita alla madre, il Boia di Red Rock Oswaldo Mobray, il taciturno mandriano Joe Gage e l’anziano Generale confederato Sanford Smithers. Mentre fuori infuria la tempesta, gli otto viaggiatori intuiscono che non tutti sono esattamente chi dicono di essere. E che raggiungere vivi Red Rock potrebbe risultare assai più difficile del previsto.
Recensione: La notizia che, subito dopo Django Unchained, Quentin Tarantino avrebbe girato un altro film western, aveva stupito non poco la comunità dei cinefili. Ci si chiedeva infatti cos’altro potesse avere da dire l’autore su un genere che di fatto aveva già scandagliato in lungo e in largo e poi vivisezionato in Django, vera e propria opera monstre oltre che ideale contraltare transoceanico del precedente Bastardi senza gloria nel rileggere e, in qualche modo, riscrivere la Storia con quella sfrenata libertà che viene concessa solo ai più grandi. Il rischio maggiore era quello della ripetizione o, peggio ancora, della maniera.
Ma il valore del genio, si sa, risiede soprattutto nella temerarietà con cui si prendono strade impervie e poco battute pur di raggiungere luoghi di cui gli altri non solo ignorano l’ubicazione, ma che a volte non immaginano neanche possano esistere. Ecco quindi che il più idealtipico degli ambienti, quell’emporio che in un qualsiasi western di stampo classico potrebbe ambire al limite ad essere tappa interlocutoria di un viaggio ben più lungo, finisce invece per essere, in The Hateful Eight, prima e ultima fermata, quella definitiva. Proprio come nel caso del capannone de Le iene, anche qui l’unità di luogo acquista una funzione tutt’altro che accessoria, conferendo forma e geometrie agli stati d’animo. Ed è curioso come il primo e l’ultimo film di Tarantino siano semanticamente così legati a doppio nodo, in una sorta di ritorno al passato necessario per chiudere un cerchio e poi guardare avanti.
Andiamo per gradi però. Perché The Hateful Eight è sì un capolavoro, ma non uno di quelli che si compiacciono di esserlo per poi saltare addosso allo spettatore inebriandolo della loro bellezza. La lunghissima inquadratura iniziale di un crocifisso ligneo in parte sommerso dalla neve è da intendersi come monito. E’ infatti il modo che ha Tarantino di dirci che stavolta il tesoro è nascosto meglio che altrove e che, per trovarlo, bisognerà avere pazienza e scavare a fondo. Del resto sono gli stessi protagonisti del film a invitarsi vicendevolmente di continuo alla calma (“procedi lentamente, come la melassa” ripete due volte John Ruth al maggiore Warren) mentre, su una diligenza che attraversa un Wyoming/Stige innevato, viaggiano verso un inferno che, almeno all’apparenza, ha tutta l’aria di essere un purgatorio.
Strutturato come una lunga pièce teatrale e diviso in due atti ben distinti a rappresentare il giorno e la notte – sostanzialmente due film – The Hateful Eight sembra impiegare moltissimo a entrare nel vivo, ma è una sensazione puramente illusoria con cui Tarantino gioca con lo spettatore allo stesso gioco che, nel frattempo, mostra sullo schermo. Mentre infatti la tempesta blocca gli “otto odiosi” all’interno dell’emporio costringendoli a presentarsi l’un l’altro di continuo, mostrandosi documenti, credenziali o mandati di cattura, ci si ritrova avviluppati tra le spire di alcuni dei migliori e più ansiogeni dialoghi del cinema contemporaneo, in preda a un’attesa mista a paura che quel qualcosa che sappiamo benissimo prima o poi debba avvenire avvenga.
E più i tempi si dilatano, più ci si abitua all’idea che ciò a cui stiamo per assistere probabilmente sarà anche peggio di come ce lo aspettiamo. A quel punto i dubbi sull’opportunità di un altro western di cui si accennava all’inizio svaniscono di fronte alla presa di coscienza di non trovarsi affatto di fronte a un western tout court, bensì a qualcosa di più complesso, che ha la forma di uno spietato kammerspiel ambientato quasi solo accidentalmente nel west, ma che poi si trasforma nel più classico dei “trova il colpevole” à la Agatha Christie dotato però dei ritmi e del coefficiente di tensione tipici di un horror.
La verità è che The Hateful Eight è, a tutti gli effetti, il greatest hits di Quentin Tarantino. Un lunghissimo e colto zibaldone pieno zeppo di tutti i topoi (anche fisici, vista la presenza di autentici attori feticcio come Samuel L. Jackson, Michael Madsen e Tim Roth) che da sempre informano il suo cinema ma che rappresenta, allo stesso tempo, un deciso passo in avanti verso una maturazione sempre più evidente. Maturazione che spinge l’autore ad abbandonare in parte la componente più ludica della sua scrittura per abbracciare istanze politiche mai così marcate, fino a sfidare l’ossimoro con un film totalmente incentrato sul concetto di identità pur raccontando una storia in cui quasi nessuno è in realtà ciò che dice di essere.
Ovvio che per arrivare a un tale risultato ci sia un prezzo da pagare e, in tal senso, Tarantino chiede molto allo spettatore in termini di pazienza, soprattutto nella prima parte del film. Una pazienza che viene poi ripagata nel secondo tempo con tutta la generosità a cui l’autore ha da sempre viziato il suo pubblico. Insieme ai tempi del racconto, in The Hateful Eight è amplificato anche tutto il resto: lo sono, come dicevamo, i dialoghi – a volte al limite dello sfiancante nel loro ruotare attorno a particolari infinitesimali nel tentativo di fare emergere eventuali incongruenze in ogni singolo personaggio – così come lo è la rappresentazione della violenza, mai così estrema, anche perché priva delle coloriture vagamente cartoonesque con cui veniva trattata, ad esempio, in Kill Bill.
Senza dubbio è amplificato il formato che, grazie alla magniloquenza dell’Ultra Panavision 70, permette al regista di allargare lo spettro visivo fino a comprendere in una sola inquadratura più azioni che si svolgono nello stesso istante. Detto della complessità dell’ottavo (e più complesso) film di Quentin Tarantino, va sottolineato anche come, dietro le pieghe di questo brutale universo popolato da loschi figuri pronti a scannarsi a vicenda appena uno volti le spalle all’altro, ci sia tutto l’amore del suo autore per un’idea di cinema che sta inesorabilmente sparendo dagli schermi. Ingiustamente sottovalutato da parte della critica americana e inspiegabilmente snobbato dall’Academy, The Hateful Eight è da considerarsi – al netto dei richiami cinefili di cui l’autore, come suo solito, lo imbastisce – come un enorme gesto d’amore verso tutto il cinema classico. Un dono preziosissimo, di quelli per cui bisognerebbe davvero ringraziare Tarantino.
E sperare che non perseveri nel suo proposito di girare solo dieci film per poi dire addio alla regia. Perché vorrebbe dire che ne mancano solo altri due.
Fabio Giusti