In Sala

The Eichmann Show

Non si tratta infatti di un film incentrato soltanto sulla ricostruzione del processo al criminale di guerra Adolf Eichmann, avvenuto nel 1961 a Gerusalemme, che portò alla luce, per la prima volta in diretta dalle voci dei sopravvissuti, le atrocità commesse dai nazisti nei campi di sterminio e l’impatto che ciò ebbe sull’opinione pubblica, bensì di un’opera sul potere della comunicazione e sul rapporto tra colpa, etica e scelte, non solo esistenziali ma anche giornalistiche

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Sinossi: Gerusalemme 1961. Il geniale produttore televisivo Milton Fruchtman assume il regista Leo Hurwitz (finito nella ‘lista nera’ di McCarthy) per occuparsi delle riprese TV del processo al feroce criminale nazista Adolf Eichmann. Quello che viene offerto a Hurwitz è un lavoro dalle dimensioni epocali: per la prima volta nella storia un processo sarebbe stato trasmesso in TV e per la prima volta il mondo intero avrebbe assistito alle scioccanti testimonianze dei sopravvissuti all’Olocausto. Il risultato di questa importante operazione fu che l’80% della popolazione tedesca guardò almeno un’ora del programma ogni settimana; che venne trasmesso su tutte le reti in USA e Gran Bretagna; ma soprattutto che finalmente, dopo 16 anni dalla fine della guerra, si cominciò a parlare apertamente dell’Olocausto.

Recensione: Il ricorrere annuale della giornata della memoria, celebrata a livello mondiale ogni 27 gennaio (giorno in cui, nel 1945, le Forze alleate entrarono ad Auschwitz), rappresenta simbolicamente da un lato la sconfitta del Male, di chi commissionò e portò avanti le atrocità dell’Olocausto, dall’altro l’importanza di mantenere viva la coscienza collettiva rispetto ad eventi di tale portata, nonché la forza rigeneratrice della Storia ed il potere delle testimonianze di individui e popoli, che raccontarono e tramandarono al mondo fatti indicibili. Quest’anno esce nelle sale, in tale occasione,  un ottimo film distribuito da Lucky Red, dal titolo The Eichmann Show – Il processo del secolo, diretto dal regista inglese Paul Andrew Williams che rivela fin dal principio le sue intenzioni, con uno stile impeccabile ed una stupenda ricostruzione d’epoca (come nelle inquadrature in strada dove i cinema mostrano i titoli in cartellone di film anni Sessanta).

Non si tratta infatti di un film incentrato soltanto sulla ricostruzione del processo al criminale di guerra Adolf Eichmann – catturato in Argentina dagli israeliani – avvenuto nel 1961 a Gerusalemme, che portò alla luce, per la prima volta in diretta dalle voci dei sopravvissuti, le atrocità commesse dai nazisti nei campi di sterminio e l’impatto che ciò ebbe sull’opinione pubblica, bensì di un’opera sul potere della comunicazione e sul rapporto tra colpa, etica e scelte, non solo esistenziali ma anche giornalistiche. Ottenuti con grandi difficoltà i permessi per riprendere e diffondere alle TV di tutto il mondo le immagini del processo Eichmann, il produttore televisivo Milton Fruchtman (più volte minacciato con la sua famiglia a causa di questo lavoro) decide di affidare le riprese del secolo al regista e documentarista Leo Hurwitz, noto per il suo anticonformismo (già nella lista nera di McCarthy) e per la sua non comune capacità di lettura degli eventi e dei loro significati, attraverso l’uso della telecamera. Hurwitz non accetta l’idea che Eichmann sia solo un ‘mostro’ e cerca, per l’intera durata del processo, di catturare l’uomo che si cela dietro al vetro di protezione dell’aula processuale, tenendogli la telecamera costantemente addosso in attesa di un cedimento, di un’emozione, di un crollo al sentir raccontare, da testimoni diretti, le storie di atrocità spaventose commesse anche ai danni di bambini, ma invano.

A parte qualche smorfia ed i consueti ritornelli dietro ai quale tutti i nazisti si sono trincerati (‘eseguivo degli ordini’, ‘ero un soldato’) per allontanare da sé le colpe del genocidio, Eichmann non mostrò umanità neppure sulle soglie della pena capitale. Tali temi vennero ripresi dalla filosofa Hanna Arendt, dapprima nei reportage come inviata del New Yorker al processo, più tardi sistematizzati nella celeberrima opera La banalità del male. Ben temperati e credibili, nel film, gli scontri fra il produttore ed il regista, laddove il primo cercava di aumentare l’audience rispetto ad altri eventi epocali mandati dalle TV in contemporanea (come il primo sbarco sulla luna), mentre il secondo indagava introspettivamente, con occhio documentaristico, sui protagonisti del processo. Alla fine di ogni giornata, per 120 sedute, la troupe televisiva sintetizzava su pellicola i momenti salienti del processo e li inviava per via aerea ai 37 Paesi dove venne trasmessa, a 16 anni di distanza dalla fine della guerra, la verità sui campi di sterminio e sulla dis-umanità dei gerarchi nazisti. In gran numero e sconvolgenti le immagini di repertorio, che immortalano per sempre il vero Eichmann con le sue enigmatiche espressioni, ed i veri testimoni della Shoah, per la prima volta liberi di parlare e raccontare senza sentire attorno a sé l’incredulità degli altri. Fra gli attori, tutti notevoli, spiccano Martin Freeman, nei panni del grande produttore Fruchtman ed Anthony LaPaglia, bravissimo nel rendere vibranti lo sgomento, fin quasi all’ossessione, e la ricerca esasperata di Leo Hurwitz per offrire agli spettatori un’immagine non stereotipata dei fatti.

Elisabetta Colla

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