La recensione di Creed – Nato per combattere (2015), valso un Golden Globe a Sylvester Stallone come miglior attore non protagonista.
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La trama di “Creed – nato per combattere”
Adonis Johnson è il figlio illegittimo di un padre famoso che non ha mai conosciuto: il campione del mondo dei pesi massimi Apollo Creed, morto sul ring poco prima che lui nascesse. Adonis la boxe ce l’ha nel sangue, come una voce interiore che gli sussurra che un lavoro d’ufficio non fa per lui e lo spinge fino a Philadelphia, il luogo in cui si tenne il leggendario incontro tra Apollo e un allora esordiente Rocky Balboa. Una volta arrivato in città, Adonis rintraccia Rocky e gli chiede di diventare il suo allenatore. Nonostante il rifiuto iniziale, quest’ultimo vede in Adonis la stessa forza e determinazione che aveva visto in Apollo, il feroce rivale che finì col diventare il suo più caro amico. Dopo averlo preso sotto la sua ala, Rocky inizia quindi ad allenare il giovane pugile, anche se l’ex campione sta combattendo un avversario più letale di chiunque abbia mai dovuto affrontare sul ring.
La recensione
Non è impresa facile riuscire a rilanciare un franchise ultrabollito, seppure iconicamente fortissimo, come quello di Rocky Balboa. Un Sylvester Stallone ormai sulla soglia dei settanta e il più che pessimo Il grande match (2014) intendere come per l’attore italoamericano fosse arrivato il momento di appendere i guantoni al chiodo. La saga di Rocky ha costituito per anni uno dei paradigmi più forti di parabola di riscatto sociale attraverso lo sport mai visti su grande schermo. l’ideale a cui tutto il cinema sportivo e non solo – da Karate Kid a Flashdance – è andato a rifarsi nei decenni successivi al primo Rocky di John Avildsen.
La saga
L’idea dietro Creed – Nato per Combattere è di riprendere le fila di un discorso interrotto nel 2006 per vedere cosa poteva uscirne fuori. La moda di rilanciare vecchie saghe cinematografiche è iniziata negli anni’10 dei duemila. Jurassic Park e Terminator, Star Wars, sono gli esempi più famosi, o famigerati. Di nuovo c’è il regista: Ryan Coogler. Gran Premio della giuria al Sundance Festival con il suo lungometraggio d’esordio Prossima fermata: Fruitvale Station. Autore anche della sceneggiatura che per la prima volta non risulta opera dello stesso Stallone. E’ impressionante come un autore così giovane prenda di petto il mito riuscendo a non tradire nessuna delle istanze che hanno contribuito a renderlo tale. Coogler modernizza la forma lasciando del tutto inalterata la sostanza, semplicemente spostando l’asse focale su un personaggio fresco. L’escamotage del figlio illegittimo di Apollo Creed che, sulle prime, appare un po’ tirato per i capelli, in realtà ha una sua funzione narrativa, coerente con la sensazione del protagonista di sentirsi “sbagliato”. Il vecchio Rocky rimane sullo sfondo, amplificandone così quell’accezione malinconica da acciaccato reduce di un’altra epoca.
Maestro e allievo
Il passaggio di testimone tra i due avviene attraverso una scena dallo straordinario potere metacinematografico. Adonis proietta su un muro lo storico incontro tra Apollo e Rocky e incapace di star fermo, inizia a boxare simulandone i movimenti. Mena fendenti nel vuoto mentre le immagini del giovane Stallone gli si proiettano sul corpo. Il legame che viene ad instaurarsi tra i due ha tutti i connotati di un rapporto filiale ed è proprio sul versante più tenero che Creed sfoggia le armi migliori. Non tanto nell’ostentata muscolarità dei due match a cui partecipa Adonis. Il primo in particolare, tutto girato in un unico piano sequenza, è straordinario. Quanto nell’intimismo goffo e un po’ sghembo che informa i dialoghi tra questi due mondi così distanti e, allo stesso tempo, così inesorabilmente simili. Il timido approccio con cui il giovane Creed cerca di conquistare quella che diventerà la sua personale versione di Adriana.
La regia e il cast
Lo stile registico, così equamente diviso tra adrenalina e romance, è solidissimo. Segno di un giovane talento che, pur venendo dall’indie, si trova perfettamente a suo agio anche al tavolo dei grandi. Non ha alcuna paura di sporcarsi con alcuni dei topoi più abusati dell’universo mainstream. È il caso del tema della malattia, trattato con il giusto pudore che permette al film di commuovere senza però mai sconfinare sui binari del facile patetismo. Merito soprattutto dell’interpretazione tutta di pancia e giustamente premiata con un Golden Globe di un magistrale Sylvester Stallone che qui ritrova la sua vena più dolente, quella da vero loser, mai più sfoggiata dai tempi del bellissimo Copland di James Mangold. Ma è tutto il film a lavorare benissimo, dal giovane protagonista Michael B. Jordan (già nel primo film di Coogler) a un tema musicale chiaramente ispirato alle note immortali di Bill Conti pur senza mai ricalcarle in maniera pedissequa, in una reinvenzione del mito estremamente sobria, che però non rinuncia allo spettacolo e alla immancabile catarsi finale. Ché, alla fine, pur sempre di lacrime e sangue si tratta.
Fabio Giusti