In Sala

La grande scommessa

Forte di una sceneggiatura in alcuni punti anche verbosa ma mai in maniera sterile e fine a se stessa, La grande scommessa è uno di quei film che immediatamente dopo averli visti ci si sente un po’ meno stupidi. In definitiva un ottimo modo per iniziare cinematograficamente questo 2016

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“La verità è come la poesia.
E a molti la poesia sta sul cazzo.” (cit.)

 

Sinossi: È il 2005 e il mercato immobiliare americano sembra più stabile che mai. La possibilità di ottenere un mutuo è qualcosa che viene concesso più o meno a chiunque mentre le effettive garanzie di un ritorno economico spesso non sono neanche oggetto di controllo da parte delle banche. L’eccentrico trader Michael Burry è il primo a prendersi la briga di leggere con attenzione i preoccupanti segnali che si celano dietro al folto intrico di numeri e tassi d’interesse e che rivelano la presenza di una “bolla” all’interno del sistema finanziario di cui nessuno sembra essere a conoscenza o comunque preoccuparsi e che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Deciso a trarre profitto da questa situazione, Burry investe ingenti quantità di denaro sul fallimento del mercato dei mutui a tasso variabile. Le banche, ritenendolo un folle, accettano di buon grado. Quando la notizia comincia a girare nell’ambiente desta l’interesse prima di Jared Vennett, broker di una delle banche a cui si è rivolto Burry, e, subito a seguire, del manager Mark Baum e di due giovani investitori alle prime armi che vedono nel possibile collasso del sistema finanziario la loro chance per essere ammessi a giocare al tavolo dei grandi. Quando il crack finanziario alla fine arriva davvero si rivela essere un disastro economico di proporzioni inimmaginabili, senza alcun precedente nella storia.

Recensione: La bolla dei mutui subprime, la rovinosa caduta di Lehman Brothers e tutto ciò che ne consegue in termini di milioni di persone ridotte all’improvviso sul lastrico andrebbero annoverati nei libri di storia come immediate conseguenze dell’evento più catastrofico del mondo occidentale contemporaneo, più grave anche dell’11 settembre. Perché il 2007 va ricordato come l’anno in cui l’America realizza che il suo nemico più pericoloso non proviene affatto dal Medio Oriente, bensì dall’interno e, per la precisione, da Wall Street. Ciò che però ha sempre reso ardua la piena comprensione di uno degli snodi focali della fine del Capitalismo per come lo conoscevamo e di qualsiasi traccia residua di quello che una volta veniva chiamato ‘American Dream’ è sostanzialmente il gergo utilizzato per spiegarlo, troppo intriso di acronimi astrusi e tecnicismi a uso e consumo dei soli addetti ai lavori. Il bellissimo film di Adam McKay (autore cresciuto sotto l’egida del Saturday Night Live e principalmente noto per aver diretto quasi tutti i film in cui abbia recitato Will Ferrell) parte proprio dal presupposto che tale linguaggio possa essere stato inventato ad hoc per rendere volutamente incomprensibile ai più una verità che è in realtà anche fin troppo semplice. E per questo ancora più triste.

Proprio in virtù di questa intuizione La grande scommessa arriva laddove i pur pregevoli Too Big To Fall di Curtis Hanson e Margin Call di J.C. Chandor non riuscivano, ossia nello sfrondare il campo da qualsiasi sovrastruttura tecnica per spiegare come abbia fatto un Sistema ritenuto fino a quel momento infallibile a permettere che una moltitudine di piccoli risparmiatori si vedesse negare, da un giorno all’altro, qualunque possibilità di continuare a vivere una vita decorosa. Per farlo McKay prende un libro del giornalista finanziario Michael Lewis (già autore della matrice letteraria di Moneyball – L’arte di vincere) e, di fatto, confeziona la più strana delle commedie. Strana perché imbastita di star che (Carell a parte) di rado bazzicano i lidi della leggerezza e che qui non solo si mettono in discussione da un punto di vista fisico (il Michael Burry di Bale – ciabatte, bermuda e un occhio di vetro a fare da filtro tra sé e il resto del mondo – in questo senso è esemplare) ma limitano la loro ovvia e naturale propensione al protagonismo in modo raro per dei divi di quel calibro. È strana anche nella struttura, puntellata di sofisticate deviazioni – evidentemente mutuate dalle moderne declinazioni dell’audiovisivo, quelle introdotte dalla lunga serialità televisiva – che sovente intervengono a spezzarne il flusso narrativo.

Il risultato è che, da un lato, lo spettatore non edotto ha finalmente l’opportunità di capire di cosa si stia parlando (anche grazie a Margot Robbie che, sorseggiando champagne in una vasca da bagno, ci parla di swap e altri strumenti derivati) mentre la leggerezza di fondo, anziché ridimensionare il portato tragico della vicenda lo amplifica, mettendone in risalto i lati più grotteschi. Che poi le derive nefaste di un sistema finanziario basato sul nulla non ci vengano illustrate attraverso il tipico prodotto indipendente Sundance-oriented, ma addirittura dal campione quintessenziale del mainstream Brad Pitt (anche produttore del film con la sua Plan B) rappresenta forse l’aspetto più radicale di un’opera travolgente e abile nell’ibridare con estrema misura impegno e entertainment.

Forte di una sceneggiatura in alcuni punti anche verbosa ma mai in maniera sterile e fine a se stessa (siamo, pur non raggiungendone le vette, dalle parti di Aaron Sorkin), La grande scommessa è uno di quei film che immediatamente dopo averli visti ci si sente un po’ meno stupidi. In definitiva un ottimo modo per iniziare cinematograficamente questo 2016.

Fabio Giusti

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