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Approfondimenti

Nymphomaniac di Lars von Trier

Un lungometraggio sulla pornografia e sul feticismo delle sue icone visuali quali nuovi paradigmi culturali e di linguaggio. Elenchiamo qui quattro grandi interrogativi (e interpellazioni concettuali) che, a nostro avviso, Nymphomaniac di Lars von Trier pone e muove al suo pubblico sulla cultura del “tutto-esposto ed esibito” dell’odierna società dello spettacolo 2.0

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Un lungometraggio sulla pornografia e sul feticismo delle sue icone visuali quali nuovi paradigmi culturali e di linguaggio.

Elenchiamo qui quattro grandi interrogativi (e interpellazioni concettuali) che, a nostro avviso, Nymphomaniac di Lars von Trier[1] pone e muove al suo pubblico sulla cultura del “tutto-esposto ed esibito” dell’odierna società dello spettacolo 2.0.

1) Sulla tematica del Maschile, inteso quale archetipo sessuale e di genere orientante e focalizzante attualmente le coordinate comuni dello sguardo e la libido consumistica su questa massiva esposizione e galassia di feticci: quanto è sostanziale ed effettiva la rottura di tabù negli attuali linguaggi e dispositivi mediali e discorsivi “voyeuristici” e nella soggettività comune che, guardando quotidianamente e disimpegnatamente il “tutto-esponibile ed esposto”, ne è la protagonista? E quanto invece quest’ultima non è diventata ancora più prigioniera di tabù e paure primitivi e regressivi (ansia di castrazione e ineffabilità del reale, rese metaforicamente dall’azzeramento dei valori iconici dello schermo nero dell’incipit e della sequenza finale del film)?[2]

2) Sulla tematica del Femminile, concepito quale archetipo cui più di ogni altro sono riferibili, specularmente ad ogni connotazione voyeuristica, il gioco performativo ed esibizionistico scaturente dal summenzionato ordine di codici (la pornografia come nuovo paradigma culturale), e i correlati effetti patiti sul piano dei vissuti soggettivi e dell’esperienza diretta dell’alterità: quanto detto “femminile” è in grado di sostenere sul piano del benessere individuale quel gioco, quando non edulcorato o mistificato, e se portato alle estreme conseguenze?

3) Sull’eredità culturale novecentesca che tentava di sanare l’aporia occidentale tra pulsioni ferine della sessualità e azione sociale, simbolica e strutturante del “linguaggio”, e dunque sul mito collettivo della psicanalisi quale “ideologia” diffusa della slatentizzazione dei discorsi rimossi e della liberazione (e decodifica) del “desiderio”: in che misura si possono ritenere l’invenzione e il successo popolare della teoria e della pratica psicanalitiche un dispositivo corresponsabile dell’affermazione attuale del paradigma culturale della pornografia (del “tutto-manifestato ed esposto” nello spettacolo diffuso ed erotizzato della società contemporanea)?[3]

E poi: 4) quanto la parola e il meta-discorso psicanalitici sono effettivamente in grado di fornire oggi strumenti pragmaticamente adeguati per decostruire il detto nuovo ordine pulsionale e discorsivo (la pornografia come modello di codici e di linguaggio), ai fini del benessere e dell’autocoscienza dei soggetti e della collettività?[4]

Fra i film più autentici, poetici e provocatori sulla nostra epoca di internet e di social network, Nymphomaniac ci pare un’opera d’arte schiettamente metalinguistica e concettuale, che arriva e impatta prima alla pancia e poi alla testa dello spettatore, sondandoci e testandoci nel vivo dell’epidermide e delle nostre resistenze psichiche, quali attori e soggetti della contemporaneità.

Francesco Di Benedetto

[1] Ci riferiamo qui al testo nella versione approvata dal regista, più estesa e sessualmente più esplicita rispetto a quella distribuita in un primo momento nelle sale.

[2] Specialmente nella prima parte, il film pare sottoporre la summenzionata soggettività voyeur a una peculiare sperimentazione di linguaggio: dilatare oltre misura la durata della più sdoganata rappresentazione pornografica audiovisiva fruibile sul web, tematizzandola persistentemente e metalinguisticamente come costrutto e dispositivo dell’immaginario (numerose e ricorrenti le marche dell’enunciazione), e intessendo su di essa un continuo contrappunto di associazioni (visuali, verbali, musicali, diegetiche) che ne potenzino in modalità stranianti l’evoluzione e la sofisticatezza sul piano linguistico. Una simile intensificazione dei valori formali del testo filmico, associata a quella materia schiettamente feticistica, lascia emergere da un punto di vista espressivo una dilagante ansia di castrazione, annientando di fatto la destinazione specificatamente voyeuristica del discorso pornografico e, con essa, qualsiasi senso perverso di piacere ascrivibile alla visione.

[3] È l’interrogativo provocatorio tematizzato compiutamente nel finale del film; laddove la figura di Seligman, che metaforizza parodicamente il “logos” e la pratica psicanalitici, viene punita dopo la lunga confessione delle sofferenze di una vita della protagonista, per aver trovato in esse stimoli per slatentizzare ed avere il coraggio di estrovertere la propria libido inibita, contrariamente ad ogni possibile identificazione profonda con la ninfomane decisa oramai per l’opzione dell’ascesi sessuale, considerato che da quella stessa estroversione libidica la protagonista medesima era stata fino ad allora devastata.

[4] L’interrogativo viene tematizzato dall’accostamento grottesco e stridente dei segmenti del film narranti l’antefatto (la storia e i trascorsi della vita di Joe) a quelli dedicati al commento con Seligman di quegli stessi trascorsi: la parola e il logos psicanalitici si rivelano caricaturalmente inadeguati a restituire il senso delle esperienze in questione, in quanto meta-discorsi che rilevano nell’ordine della “latenza” e della “rimozione” il proprio paradigma soggettivante, a differenza della cultura contemporanea che ritrova nell’“epidermide” della pornografia, del trauma e del dolore la propria unità di misura per accostarsi alla realtà.

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