In Sala

Il labirinto del silenzio

Il film di Giulio Ricciarelli evita di assumere toni eccessivamente documentaristici proprio per permettere allo spettatore di appassionarsi a una storia che tanto incise sull’identità del popolo tedesco, che, probabilmente, non ha ancora, a tutt’oggi, terminato il processo di metabolizzazione di un evento la cui eccedenza degenerò rovinosamente nella più grande tragedia che si ricordi

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Arriva nelle sale italiane dal 14 Gennaio Il labirinto del silenzio, film candidato all’Oscar del regista Giulio Ricciarelli.

Sinossi: 1958. Nessuno ha voglia di ricordare i tempi del regime nazionalsocialista. Il giovane procuratore Johann Radmann si imbatte in alcuni documenti che aiutano a dare il via al processo contro alcuni importanti personaggi pubblici che avevano prestato servizio ad Auschwitz. Ma gli orrori del passato e l’ostilità che avverte nei confronti del suo lavoro portano Johann vicino all’esaurimento. E’ quasi impossibile per lui trovare l’uscita da questo labirinto: tutti sembrano essere stati coinvolti o colpevoli.

Recensione: Mai prima d’ora il cinema si era cimentato con una fase delicatissima della storia tedesca che vide per la prima volta, alla fine degli anni cinquanta, prendere forma un processo giudiziario interno per accertare le responsabilità dei militari nazisti coinvolti nei crimini commessi ad Auschwitz. Siamo in Germania nel 1958 e il giovane Pubblico Ministero Joahnn Radmann (interpretato da un buon Alexander Fehling) all’inizio della propria carriera s’imbatte nel trambusto sollevato dal giornalista Thomas Gnielka (Andre Szymansky), il quale riferisce che un suo amico avrebbe riconosciuto un insegnante, suo collega, secondo lui un’ex guardia di Auschwitz. Da qui comincia una travolgente indagine indirizzata a reperire tutti i documenti e le testimonianze necessari per individuare le responsabilità penali di alcuni individui collegati direttamente con la tristemente nota fabbrica dello sterminio. Grazie all’appoggio del Pubblico Ministero Generale Fritz Bauer (Gert Voss), Radmann comincia un intensissimo lavoro ostacolato da un muro di omertà, dovuta in gran parte alla volontà di rimuovere un passato troppo ingombrante e difficile da metabolizzare, e a un’ignoranza diffusa su ciò che davvero accadde nei campi di concentramento.

Alla fine degli anni cinquanta in Germania la maggior parte della popolazione – soprattutto le nuove generazioni – non sapeva nemmeno cosa fosse Auschwitz, e, dunque, il giovane procuratore ritenne ancor più doveroso intraprendere una crociata in nome della fedeltà alla Verità di un Evento (il primo evento biopolitico della Storia, come giustamente faceva notare il filosofo Roberto Esposito), che doveva ad ogni costo tornare a galla per suturare una ferita che, in maniera latente, dilaniava il popolo tedesco. I problemi sorti durante questo tentativo estremo di ricostruzione dei fatti furono legati, ovviamente, al solito atteggiamento di deresponsabilizzazione dei soggetti interessati, i quali, messi alle strette dalle schiaccianti prove che li inchiodavano, invocavano come extrema ratio la loro mancanza di colpevolezza adducendo che si erano limitati a eseguire degli ordini cui non potevano sottrarsi. Questa linea difensiva non venne però considerata plausibile durante il processo, anche se, e di ciò va davvero reso merito a questo film, lo stesso Radmann si chiede onestamente durante le sue indagini come si sarebbe comportato se si fosse trovato in una situazione come quella denunciata.

Un’altra splendida sequenza mostra il procuratore in balia di un delirio paranoico in cui lo si vede deambulare per la strada accusando tutte le persone che incontra di complicità con i crimini commessi dal Terzo Reich. D’altronde come già aveva analizzato Hannah Arendt nel suo La banalità del male, il dato che davvero sconcertava fu che tutto il popolo tedesco si fece trascinare acriticamente in una spirale in cui il crimine venne riconosciuto come consentito dalla legge. Una sospensione del diritto che inaugurò il nuovo processo d’immunizzazione della comunità tedesca, caratterizzato da un eccesso che, vedendo l’elemento ebraico come un batterio da estirpare, comportò il più grande e tragico fraintendimento della Storia. Come faceva notare Alain Badiou in L’etica – Saggio sulla coscienza del Male, ciò che davvero comporta effetti devastanti non è tanto la volontà di compiere del male ma la convinzione di realizzare qualcosa che erroneamente si ritiene essere Bene.

Il film di Giulio Ricciarelli evita di assumere toni eccessivamente documentaristici proprio per permettere allo spettatore di appassionarsi a una storia che tanto incise sull’identità di un popolo, che, probabilmente, non ha ancora, a tutt’oggi, terminato il processo di metabolizzazione di un evento la cui eccedenza degenerò rovinosamente nella più grande tragedia che si ricordi. Il labirinto del silenzio è al momento nella rosa dei film in lingua straniera candidati all’Oscar. Film necessario, dunque, da vedere per confrontarsi con una pagina di Storia poco ricordata.

Luca Biscontini

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