Arriva nelle sale italiane dal 16 Dicembre Il ponte delle spie, ultimo film del regista Steven Spielberg.
Sinossi: Il titolo del film, Il ponte delle spie, fa riferimento a un ponte realmente esistente a Berlino, che un tempo univa la zona est e quella ovest, oggi noto come Ponte di Glienicke. Il soprannome gli viene dal fatto di essere stato spesso teatro di scambi di prigionieri tra i servizi segreti americani e quelli della Germania Est. Siamo nel 1957. Il ponte delle spie racconta la storia di James Donovan (Tom Hanks), un famoso avvocato di Brooklyn che si ritrova al centro della Guerra Fredda quando la CIA lo ingaggia per un compito quasi impossibile: la negoziazione per il rilascio di un pilota statunitense, Francis Gary Powers, abbattuto nei cieli dell’Unione Sovietica mentre volava a bordo di un aereo spia U2.
Recensione: L’ultimo film di Steven Spielberg si apre e si chiude con due dipinti: il primo è un autoritratto realizzato dalla spia russa intorno alla quale si muove tutta la vicenda messa in scena, ispirata a una storia realmente accaduta, mentre l’ultimo, eseguito sempre da Rudolf Abel (Mark Rylance), raffigura l’avvocato Donovan (Tom Hanks), annunciando una mutazione, una metamorfosi che acquista una dimensione etica decisiva nella misura in cui segnala un passaggio interiore, un movimento dall’auto referenzialità, imposta dalla condizione di agente segreto operante in territorio nemico, a un’apertura verso l’altro che rivela una nuova soggettività che si dà a partire dalla relazionalità. Il regista americano, dunque, pone due profonde tracce all’interno delle quali installare una serie di eventi che, presi nella loro mera natura storica, fanno arrossire (almeno lo spettatore americano), non fosse altro per tutto il teatrino di giochi, doppi giochi e quant’altro su cui incombeva drammaticamente l’ombra di un conflitto termonucleare globale. Spielberg pare proprio voler calcare la mano sul lato grottesco di una Storia che ha vincolato per tutta la seconda metà del secolo scorso le sorti del pianeta, ed è interessante notare il rapporto che le amministrazioni americane intrattenevano con tutti quei soggetti (servizi segreti, polizia, militari) coinvolti in prima linea in una guerra di posizione, in cui si sviluppò uno smisurato disturbo paranoico di massa. Donovan, un avvocato che si occupava di assicurazioni, e dunque al di fuori da ogni apparato della difesa americana, è l’unico individuo capace di mantenere una lucidità che gli consente di valutare con ragionevolezza i fatti che si susseguono vorticosamente, non perdendo mai di vista l’umanità del soggetto che si ritrova, suo malgrado, a difendere dalle accuse di spionaggio, e, di fatti, sarà solo grazie a lui che tutta l’intricata vicenda potrà trovare l’auspicata soluzione.
Gli Stati Uniti in quegli anni intrattennero un rapporto scorretto con coloro che si dovevano occupare della difesa del paese, considerandoli del tutto sacrificabili, in nome del bene superiore della nazione, inaugurando un sistema d’immunità comunitario contrassegnato da un eccesso che provocò un corto circuito interno, il cui effetto fu una politica miope, incapace di controllare davvero l’andamento degli eventi. Un delirio paranoide a tutti gli effetti che, come già era accaduto nel corso della storia in altre occasioni, trascinò con sé l’intero popolo americano che, a fronte della difesa costituzionalmente garantita e offerta a Rudolf Abel, intraprese una crociata contro Donovan, reo di aver preso le parti del nemico. Delirio che produsse anche la divisione di Berlino, città in cui è ambientata una cospicua parte della vicenda, visto che l’avvocato cercò di ottenere non solo il rilascio del pilota americano abbattuto dai sovietici, ma anche quello di un giovane studente statunitense che per sbaglio venne arrestato dalla polizia della Repubblica Democratica tedesca. Alla sovra eccitazione del temperamento americano si contrappone la calma serafica di Abel che, pur rischiando la sedia elettrica per i suoi crimini, mantiene una freddezza che gli consente di gestire emotivamente tutto il decorso dei fatti. E poi il ponte, infine, su cui si realizza il sospirato scambio, una zona franca, un non-luogo dove il diritto, di qualunque natura, è sospeso a tempo determinato, e dove si retrocede a una logica non più squisitamente economica, in quanto la fluidità evanescente della moneta viene sostituita dalla concretezza del baratto, rispondendo, dunque, a esigenze vive senza alcuna mediazione ulteriore, e alla carne corrisponde altre carne, in un processo di individuazione che recupera i soggetti nella loro interezza e valore.
Spielberg conferma le sue doti di grande narratore prendendo di petto un consistente pezzo di storia americana, sviscerandone i più reconditi meccanismi, denunciandone le perverse dinamiche, e concedendosi anche lo spazio per suggerire alcune decisive correzioni ad un atteggiamento che portò il mondo sull’orlo del collasso. L’arte diviene la postazione privilegiata attraverso cui cartografare la mappa di un futuro liberato dall’incombenza di un ‘discorso’ paranoico che informò lo spirito di un popolo da sempre auto insignitosi del ruolo di dominatore del mondo. Si trattava, dunque, di passare a un livello di cooperazione configurante un’intersoggettività in cui trovare nuovi spazi all’interno dei quali inserire più efficaci contenuti. Il ponte delle spie è un film epico, necessario, lungimirante, insomma, da vedere.
Luca Biscontini