Una sarabanda di forme e colori scorre fulminea sullo schermo incenerendo lo sguardo dello spettatore irrimediabilmente frastornato dalla parata barocca messa in scena da Peter Greenaway. Morte e desiderio si avvicendano in un tripudio di immagini che si fanno segno, vergando lo schermo attraverso una proliferazione resa possibile dalla serialità tecnologica, una moltiplicazione che non cessa di estendere la catena significante, convocando lo spettatore a fare i conti con un surplus di senso che sgorga dalla circolarità di una riflessione sulla rappresentazione e il suo possibile superamento. Hendrick Goltzius, incisore vissuto a cavallo tra il ‘500 e il ‘600, si intrattiene presso il margravio d’Alsazia, implorando un finanziamento per il suo progetto, allora innovativo, per riprodurre con una macchina stampatrice le immagini atte a illustrare l’Antico testamento e un’opera di Ovidio, mettendo in cambio a disposizione la sua compagnia per rappresentare sei episodi tratti dai testi sacri in cui si narrano alcune delle più significative aberrazioni sessuali. Voyeurismo, incesto, adulterio, pedofilia, prostituzione e necrofilia rivivono in alcuni racconti assai noti: Adamo ed Eva, Lot e le sue figlie, Davide e Betsabea, la moglie di Putifarre e il giovane Giuseppe, Sansone e Dalila, Salomè e Giovanni Battista.
Ciò che pare muovere la sovrabbondanza della creatività di Greenaway, che in questa occasione si avvale assai proficuamente delle svariate possibilità espressive messe a disposizione dal digitale, è un entusiasmo che non conosce le tipiche ricadute maniacali della condizione nevrotica, un eccesso che si preserva in quanto tale e che non smette di produrre segni, scardinando quella finitezza che inesorabilmente informa il concetto di rappresentazione. Se è vero che la morte non cessa di allungare la sua macabra ombra su ciò che ne costituisce il naturale contrappunto, la sessualità continua a produrre una leggerezza gioiosa che pare risollevare le sorti di un’umanità fatalmente minata dall’ingresso nel mondo del peccato originale, dall’aver colto il frutto della conoscenza, resasi colpevole, dunque, di quella vanità che ne ha compromesso il destino. Si tratta, quindi, di emanciparsi da questa dinamica annichilente, per guadagnare una soggettività che si dia, finalmente, a partire da un respiro comunitario in cui il singolo possa fare esperienza di una dimensione davvero universalizzante, schivando la trappola di un relativismo che opprime, rendendo impossibile qualsiasi reale slancio che ambisca a evadere dagli angusti spazi di una modernità che immobilizza. Greenaway si cimenta nel titanico tentativo di dare corpo al godimento, condizione irrappresentabile per antonomasia, e per far ciò allestisce un ‘teatro’ in cui viene tematizzato anche e soprattutto il versante della fruizione, dato che il pubblico che assiste alle varie messe in scena partecipa attivamente allo svolgimento, influendo sensibilmente sull’esito finale. Fino a quando non accade ciò che si era fortemente auspicato, ovvero l’irruzione di un reale che marchia traumaticamente e, dunque, dalla ‘rappresentazione della morte’ – il riferimento è all’ultimo e più significativo episodio di Salomè e Giovanni Battista in cui il vero Boethius viene decapitato – si passa ‘alla morte della rappresentazione’, inaugurando un nuovo processo costituente in cui l’arte si disfa della vanità dell’autorialità per dare spazio a un’intersoggettività che determina un’inedita modalità del processo creativo, che si può perfezionare, e quindi darsi, solo a partire dal decisivo apporto prestato dal fruitore che, intervenendo attivamente, muta, dissolve, frantuma ogni residuo di solipsismo. Il moltiplicarsi dei segni, che segue a un’innovazione tecnologica in cui si ammicca chiaramente al dispositivo cinematografico che ne costituisce il naturale approdo, s’indirizza proprio verso un’arte totale che si affranchi dalla logica museale per invadere gli spazi sconnessi della postmodernità, smarrendo quell’aura che contrassegnava ancora una certa nostalgia per una gerarchia antica, caratterizzante una fase di persistente regressione a uno stato infantile in cui permane un’espansione illimitata dell’io. Si tratta dunque di superare se stessi, mettendosi da parte, agevolando un processo che davvero liberi.
Goltzius and the Pelican Company è un film strabiliante che entusiasma, infiamma, ponendosi come scatto in avanti di una riflessione che trova la propria realizzazione visiva, plastica, incarnandosi; l’irruzione del reale viene immediatamente assorbita attraverso un istantaneo processo di simbolizzazione che magicamente ne mostra le fuggevoli tracce. Una rivisitazione dei classici che prima di essere un’opera è un saggio critico su di essi.
Pubblicato da Lo Scrittoio e Mare Mosso e distribuito da CG Entertainment, Goltzius and the Pelican company è disponibile in dvd con in allegato la sceneggiatura originale scritta da Peter Greenaway. Uno dei film più significativi degli ultimi anni.