“Il quarantottenne regista parigino Jacques Audiard stavolta si concentra sul rapporto servo-padrone con la straordinaria coppia Niels Arestrup-Tahar Rahim”.
Il titolo è suggestivo e altisonante come Requiem – Labirinto mortale (2001), film francese ambientato in parte in carcere, che raccontava la conversione mistica di un rapinatore. Ma con Il profeta non siamo di fronte ad alcuna conversione, a nessuna crescita morale o spirituale, solo alla lucida iniziazione di un diciannovenne arabo al mondo criminale. Entrato in una prigione francese per scontare una pena di sei anni, Malik (Tahar Rahim) viene costretto a commettere un omicidio dai potenti detenuti corsi. In seguito, imparerà a far prevalere l’intelligenza sulla forza fisica e dimostrerà una straordinaria capacità d’adattamento, riuscendo ad estendere la propria influenza su un numero sempre maggiore di attività illegali, dentro e fuori dal penitenziario. Una storia paradossale, dunque, in cui il protagonista raggiunge una posizione di potere nel mondo delinquenziale che non avrebbe mai ottenuto se non fosse andato in prigione.
Il quarantottenne regista parigino Jacques Audiard, figlio del regista Michel e già conosciuto per grandi storie d’amore raccontate con ricercatezza tecnica (Sulle mie labbra e Tutti i battiti del mio cuore), stavolta si concentra sul rapporto di controllo servo-padrone, puntando soprattutto sull’ottima recitazione di Niels Arestrup, padrino corso dagli occhi cerulei, e di Tahar Rahim, maghrebino dai lineamenti gentili, che rappresentano una scelta innovativa rispetto ai film ambientati nelle carceri maschili solitamente popolati da attori super virili. Senza voler girare un film sociologico, ma convinto che il cinema debba raccontare il mondo reale, Audiard si rifà ad un genere che in Francia risulta popolare fin dai tempi di Victor Hugo e che ha già decretato il successo di pellicole come Le mur (1998), sulle condizioni carcerarie dei minorenni ad Ankara, o Yol (1982), su un gruppo di detenuti in licenza che perpetuano all’esterno le stesse regole comportamentali apprese in carcere.
Molto esplorato dal cinema statunitense (valga per tutti il nome di Frank Darabont, regista di Le ali della libertà e de Il miglio verde), il genere “prison movie” tende a reiterare alcuni cliché come rappresentare un universo in cui la colpa per la quale si è stati condannati costituisce il male minore, mentre il male maggiore è la pena; veicolare il messaggio che le istituzioni sono responsabili della violenza presente nel carcere; mostrare l’ambiente penitenziario come una scuola di vita, una giungla in cui vince il più forte, ad imitazione dei disvalori della società della quale è emanazione. Purtroppo, spesso il cinema d’intrattenimento si limita a rappresentare il mondo carcerario senza l’ambizione di svilupparne un’analisi critica, accontentandosi di quadrare il cerchio con la rivincita finale del protagonista-eroe sui “cattivi”. Non è il caso de Il profeta, alla cui sceneggiatura il regista ha lavorato per tre anni con Abdel Raouf Dafri, Nicolas Peufaillit e Thomas Bidegain, proponendosi di “leggere” i mutamenti in corso nell’universo carcerario occidentale.
Lucilla Colonna
Vuoi mettere in gioco le tue competenze di marketing e data analysis? Il tuo momento è adesso!
Candidati per entrare nel nostro Global Team scrivendo a direzione@taxidrivers.it Oggetto: Candidatura Taxi Drivers