Vincitore della sezione Un Certain Regard alla scorsa edizione del Festival di Cannes, Rams – Storia di due fratelli e otto pecore dell’islandese Grímur Hákonarson approda nelle sale italiane, coraggiosamente distribuito da Bim. Si, perché l’originale storia messa in scena dal cineasta, al suo secondo lungometraggio di finzione, è davvero inconsueta, ed è scandita da ritmi assai dilatati, proprio per far immergere lentamente lo spettatore nella dimensione rurale – e quindi sganciata dalle dinamiche frenetiche del mondo contemporaneo – che avvolge le vicende dei protagonisti, due fratelli, Gummi e Kiddi, animati dallo stesso viscerale amore per gli ovini, di cui entrambi gestiscono un cospicuo allevamento.
[Avvertenza: di seguito l’analisi del film comporta un certo grado di svelamento della trama (dicesi anche spoiler)].
La passione smodata per gli innocui quadrupedi diviene sottile metafora di tutta l’emotività repressa e l’affetto negato, visto che, nonostante il legame di sangue e il fatto che vivano l’uno di fronte all’altro, i due non vanno d’accordo, hanno interrotto le comunicazioni da ben quarant’anni e, quando si trovano costretti a scambiarsi alcuni messaggi, utilizzano il cane della fattoria come corriere delle loro missive. Tutto questo precario equilibrio, fatto di silenzi, di non detto, s’incrina quando Gummi si accorge che uno dei montoni del fratello ha contratto una malattia che, visto il forte tasso epidemiologico, costringe gli allevatori della valle a dover abbattere i loro capi e a disporre le necessarie operazioni igieniche per impedire un nuovo focolaio. Gummi, però, disubbidisce alle prescrizioni imposte dai veterinari e, dopo aver soppresso gran parte del suo bestiame, porta con sé otto pecore che costudisce nella cantina della sua abitazione, adibita per l’occasione a stalla. Sarà proprio il comune amore per i docili ovini, stavolta fatalmente messi in pericolo, a costituire la condizione a partire da cui i due burberi e misantropi fratelli troveranno un disperato e inaspettato canale di comunicazione, laddove il rischio imminente di morte dell’animale diviene rappresentazione visiva della possibile dissoluzione di un legame profondo che, al di là della cronaca degli eventi, è rimasto sempre operativo nella sfera più nascosta della loro vita emotiva.
Si giunge, in tal modo, a una potente sequenza finale, in cui, a fronte di un vero e proprio attraversamento della tempesta, si arriva all’anelato contatto che è, innanzitutto e per lo più, quello dei corpi, un abbraccio che sa di regressione allo stato fetale e che, prepotentemente, azzera una vita scostante, mascalzona e anaffettiva. Un amore totale, tant’è che nella loro vita, proprio in virtù della repressione esercitata e subita, non c’è spazio per una relazione con una donna, a dimostrazione del fatto che il loro rapporto ha inciso in maniera determinante sul corso delle rispettive fragili esistenze.
Grímur Hákonarson trova una chiave di rappresentazione inedita per sviscerare un legame di sangue in cui ad essere evocati sono dei meccanismi ancestrali, arcaici, operativi malgrado noi, che non si possono ignorare, pena la desertificazione inesorabile dell’emotività, con tutti gli effetti collaterali scatenati. Un’immagine, quella finale del film, che rievoca l’abbraccio tragico, ma al tempo stesso pieno di speranza, tra Willem Defoe e Shanyn Leigh in 4:44 Last Day On Earth, uno degli ultimi, e purtroppo sottovalutati, film di Abel Ferrara.
Un film atipico, dunque, che va a rinfrescare un panorama distributivo italiano troppo spesso funestato dalla diffusione di opere deboli, prevedibili, non necessarie, e che, tra l’altro, non riescono neanche a sortire il successo commerciale sperato. Un plauso dunque a Bim (che da sempre promuove un cinema di qualità) per la coraggiosa scelta di portare nelle sale italiane un’opera originale, incisiva e emotivamente coinvolgente.
Luca Biscontini