Noi taxidrivers siamo stati i primi in Italia a realizzare nel 2011 una retrospettiva completa delle opere di Pablo Larraìn, ideata da Maria Cera e Gianluigi Perrone presso la sede del Fusolab. Subito dopo Vincenzo Patanè e Luca Biscontini hanno pubblicato il primo numero di Taxidrivers Magazine, intitolato Il cinema biopolitico di Pablo Larraìn, in cui la sottoscritta si è occupata del rapporto fra il regista e il suo attore-feticcio Alfredo Castro. Siamo pertanto felici, ora che il suo El club è candidato all’Oscar, di poter rivedere lui e tutta la sua filmografia alla Festa del Cinema, dove è arrivato in camicia rossa e giacca nera con una grinta da personaggio mitologico a metà fra El “Che” Guevara e Dylan Dog. Contrariamente a tanti registi che rifiutano di parlare prima che il pubblico veda il film, ha subito risposto con notevole presenza di spirito a tutte le domande di Mario Sesti, spiegando che ha ambientato El club vicino a una sua casa sulla costa oceanica cilena, la stessa in cui prima di girare si ritira sempre una settimana insieme al direttore della fotografia Sergio Armstrong per approfondire gli aspetti da focalizzare nel nuovo lavoro con l’aiuto di libri e tante pellicole, tra le quali non manca mai un’opera di Pier Paolo Pasolini.
Come già Spotlight (2015) di Tom McCarthy e la pièce teatrale italiana Nel nome di chi? Dentro i muri del Vaticano (2014), El club si ispira allo scandalo suscitato da alcuni preti pedofili e comincia con una delle più belle frasi della Bibbia, “Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre”, metafora del bene e del male.
Formatosi in scuole cattoliche, Larraìn affronta questa tematica con una fotografia che sottrae colore e nitidezza ai paesaggi, evidenziando lo stato di confusione e di povertà mentale in cui sopravvive un manipolo di religiosi accusati di avere peccato, cacciati dalla propria parrocchia e confinati in una sorta di reclusione-espiazione, lontani dalla società. Agli attori non è stata fatta leggere la sceneggiatura in modo che, ignorando passato e futuro dei personaggi, interpretassero il proprio presente come sospesi in un limbo di crisi identitaria. Il regista ha raccontato che la metà delle scene girate sono state concepite direttamente sul set senza un supporto scritto, e lui le ha definite scene X a disposizione del montaggio finale. L’unica certezza è che manca qualsiasi certezza. Emblematica la caratterizzazione di personaggi come la suora (Antonia Zegers) che in passato è stata accusata di episodi di sadismo ma difende la sua innocenza e quotidianamente si fa carico dei compiti più umili e dei lavori più gravosi, o come padre Ramirez che sembra ricordare un passato di libertinaggio sfrenato ma invece potrebbe essere solo un malato visionario. Allora, qual’è la verità? I carnefici diventano vittime e, viceversa, le vittime sembrano non poter fare a meno di perseguitare. Dalla debolezza umana scaturisce l’incapacità di fare scelte sensate per realizzare la propria vita, dalla paura di essere ricattati si origina l’omertà. Sono problemi universali che affliggono tutta la nostra società, e che attraversano la Chiesa in quanto essa è parte di questa società. Se si chiede a Larraìn che messaggio voglia far arrivare al pubblico, risponde che secondo lui il cineasta è come un bambino con una bomba in mano che può esplodere o meno, ma nessuno sa in anticipo cosa andrà a provocare. Poi aggiunge che il dovere di chi realizza film non è schierarsi, ma avere un occhio critico per le situazioni che affliggono l’umanità. Dal canto nostro, visto che finora non ha mai sbagliato un colpo, siamo impazienti che esca anche il suo prossimo film, intitolato Neruda.