“Attraverso i miei film ho sempre cercato di catturare die zeitgeist, lo spirito del tempo”, rappresentare gli sforzi che l’uomo compie in un luogo e un tempo ben precisi. David Verbeek, regista olandese nato ad Amsterdam nel 1980, introduce così le motivazioni che lo hanno portato a Full Contact, suo sesto lungometraggio, reduce dalla competizione ufficiale del Toronto Film Festival.
Il nostro tempo è caratterizzato da cambiamenti veloci che ci fanno perdere la percezione della realtà; tutto è filtrato da uno schermo, da un occhio meccanico che osserva il mondo e lo ricostruisce attraverso un flusso di informazioni e notizie che ci bombardano fino a farci perdere il senso di ciò che è reale. E i bombardamenti, quelli veri, non si fanno più sul campo: i fucilieri sono diventati dei cacciatori tecnologici, colpiscono le loro prede stando comodamente seduti di fronte ad uno schermo a decidere se e quando premere il bottone. Apparentemente un lavoro come un altro, senza intromissioni emotive, senza troppe domande: aldilà dello schermo c’è una realtà astratta, non la puoi vedere non la puoi toccare dal vivo, devi solo sparare come se fosse un gioco.
Il racconto si apre nel deserto del Nevada, quasi incolore come il volto del protagonista Ivan (Grégoire Colin), dove l’uomo lavora ogni giorno per colpire attraverso i droni i bersagli sospetti di essere cellule terroristiche che si trovano in altre parti del mondo. La sua vita scorre apparentemente tranquilla, l’uomo si convince di non lasciarsi coinvolgere dal suo lavoro ma ne viene inevitabilmente trascinato, conducendo un’esistenza solitaria e asettica, come le stanze troppo ordinate e pulite della sua casa. L’incontro con la spogliarellista Cindy (Lizzie Brocheré) si rivela un timido tentativo di apertura, uno squarcio di luce e un tocco di spensieratezza nella sua anima cupa e pesante come un macigno.
Senza passaggi narrativi, Ivan – o qualcuno con il suo stesso volto e la sua anima – si ritrova proprio in quei luoghi che aveva attaccato dalla base del Nevada. Non sappiamo perché e non sappiamo come, ma si spinge nelle caverne del suo mondo interiore per capire qual è la realtà, quella vera. Ivan si ritrova a sparare ai bersagli che aveva attaccato nella sua vita precedente, quei bersagli che aveva mancato, colpendo per errore una scuola. E’ una seconda parte totalmente priva di dialoghi: Ivan vive nudo sulle rocce, senza alcuna sovrastruttura né affetto, tranne quello di un cane.
La terza parte si apre nell’aeroporto di un paese francofono: Ivan lavora all’ufficio bagagli smarriti e ritrova Cindy, sua collega di lavoro, che lo prenderà nuovamente per mano e lo aiuterà a lasciarsi andare. Ivan inizia ad allenarsi a Full Contact e grazie all’aiuto di Al Zaim (Slimane Dazi) si prepara per un incontro con un avversario molto forte. Si fa fatica a capire il filo narrativo: le tre scene non hanno nessun nesso temporale, né sono l’una la conseguenza dell’altra. Verbeek ha voluto mostrare il momento in cui il cacciatore tocca con mano la sua preda: è quello il momento in cui la realtà gli si rivela davanti agli occhi e non attraverso uno schermo.
Dalla base del Nevada, Ivan combatteva il nemico stando seduto, mettendo quella giusta distanza necessaria per non farsi coinvolgere; nella seconda parte torna ad uccidere ma lo fa in maniera più diretta, con un’arma, che lo rende sicuramente superiore ai suoi avversari, ma guardando in faccia le sue vittime; nell’ultima parte è a mani nude, soltanto lui e il suo avversario, alla pari, senza un apparato o un arma che lo protegga.
L’intenzione di Verbeek, quella di mostrare quanto si diventi vulnerabili nel momento in cui si tocca con mano la preda (o la realtà) arriva alla fine del film; si fa fatica a trovare un filo conduttore tra personaggi ed episodi, e si cerca sempre una spiegazione ai cambi di scena, di ambientazione e di personaggi, e ad un’ulteriore rilettura si potrebbe dire che questo accade perché siamo abituati a percepire la realtà attraverso canali e mezzi di espressione che ce la confezionano dando una risposta a tutte le nostre possibili domande. E invece quelle risposte sarebbe meglio che ce le andassimo a cercare da soli.
Anna Quaranta