La narrativa di Gillian Flynn, che piaccia o meno, è realistica. Perlomeno per ciò che concerne i contesti sociali entro cui si svolge. Il mondo giornalistico-televisivo di bassa levatura, che si nutre avidamente di morte, di disgrazie, non è un’invenzione da romanzieri. La curiosità morbosa di donne la cui vita è indissolubilmente legata alla tecnica sopraffina necessaria per stirare una manica di camicia non è un elemento creato appositamente per far decollare la trama di un romanzo o di un film. Esistono, sono reali. Me ne accorsi quando, un giorno, una schermata invase il mio televisore. Si trattava del caso Yara Gambirasio. Un titolo minaccioso gettava un’ombra inquietante sulla figura di Maurizio Bossetti: Yara, tutto contro Bossetti. “È vero che ti andavi a fare le lampade?” Una storia vera. Una torbida chiave di lettura per un caso di cronaca ancora irrisolto. Se è vero che tutto il mondo è paese, in molti devono aver provato una sensazione familiare durante la visione di Gone Girl (David Fincher, 2014), buon film, ma non memorabile, tratto proprio da un romanzo della Flynn. L’invadenza delle telecamere nella vita privata, il cinismo e lo squallore di certi programmi che non avrebbero nulla da raccontare se il sindacato degli assassini indicesse uno sciopero a oltranza. Considerazioni un po’ retoriche, certo, ma tant’è. Gone Girl era particolarmente incentrato su questo aspetto, mentre in Dark Places – Nei luoghi oscuri si crea addirittura il Kill Club, un manipolo di giovani feticisti del crimine che fanno confluire la loro passione per la cronaca nera nella risoluzione di casi in sospeso. Il Kill Club contatta la protagonista Libby Day (Charlize Theron), unica sopravvissuta al massacro che ha sterminato la sua famiglia, avvenuto quando lei era ancora una bambina. Ancora sotto shock, la piccola Libby Day accusò il fratello Ben di essere responsabile di quella carneficina. Il Kill Club, a distanza di anni, è convinto che il posto in cella sia occupato dalla persona sbagliata e offre del denaro proprio a Libby, per aiutarli nelle indagini. La protagonista, che fino a quel momento aveva sbarcato il lunario grazie al sostegno di benefattori compassionevoli, alla luce dei nuovi stenti, è costretta ad accettare, contribuendo a far riaffiorare una nuova, ancor più drammatica, versione dei fatti.
Una pellicola tutto sommato buona, con qualche punto di forza e qualche debolezza. Il Kill Club è una buona trovata e il film, di riflesso, ne beneficia, ma un approfondimento ulteriore e un’epurazione da certe trovate un po’ macchiettistiche sarebbero stati cosa gradita. L’introduzione dell’elemento esoterico-satanista (il fratello Ben, in piena crisi adolescenziale, è un metallaro che straparla di maligno e sacrifici), associato alla tipica patina da VHS dei flashback, è particolarmente suggestivo nel rievocare l’ottusità degli anni Ottanta: genitori allarmati per i teschi sulle T-shirt dei loro bambini innocenti, ritrovamenti di disegni che raffiguravano corpi squarciati e invocazioni a Lucifero. Quella stessa ottusità che in piena guerra fredda ha fatto sì che il vero nemico della società venisse individuato negli Slayer.
Il film è ben recitato, il cast è superlativo: Chloe Grace Moretz conferma il suo talento cristallino; Christina Hendricks fa la sua gran figura, due figure per l’esattezza; Nicholas Hoult è in grado di conferire più sfumature a un personaggio che non sembrava avere l’ambiguità tra i suoi punti di forza. Il punto più debole è, forse, rappresentato proprio dalla protagonista, nonostante l’ottima (come sempre) interpretazione della (incolpevole) Theron: una bambina che sopravvive a un brutale massacro e che, come conseguenza, nella sua vita distrutta si porta appresso solo un look da camionista e un carattere un po’ scorbutico. Poco credibile. Un film accettabile nonostante qualche momento di stanca, con una discreta colonna sonora e un brano pazzesco dei Belong a conferire un necessario tocco di classe.
Riccardo Cammalleri