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Festival di Roma

Festa del Cinema di Roma: Room di Lenny Abrahamson e The Wolfpack di Crystal Moselle

Un film di finzione ed un doc che ci immergono nel confronto tra io e mondo. Tra interno ed esterno. Dentro rapporti di forza impari e folli in cui la libertà diventa un reale valore, assume una propria, chiara, identità, così diversa per ciascuno

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Alienazioni e identità: Room e The Wolfpack

Chiuso, bloccato, tarpato, ingolfato, ritardato: quando lo stare nella vita inciampa dentro una vera e propria prigionia-costrizione che media-deforma la percezione dell’altro da sé: che siano oggetti, natura, esseri umani… Le mie prime due visioni di questa Festa del Cinema 2015 hanno unito prodotti opposti e speculari: un film di finzione ed un doc che ci immergono nel confronto tra io e mondo. Tra interno ed esterno. Dentro rapporti di forza impari e folli in cui la libertà diventa un reale valore, assume una propria, chiara, identità, così diversa per ciascuno. Room di Lenny Abrahamson (Selezione Ufficiale) è la tanto reale quanto terrificante vicenda di una reclusione a tutti gli effetti. Adattamento cinematografico del romanzo Stanza, letto, armadio, specchio di Emma Donoghue (che ha scritto anche la sceneggiatura), ispirato al caso Fritzl (donna austriaca imprigionata per 24 anni in un bunker costruito da suo padre nella cantina di casa. Abusata sessualmente dal padre, ha dato alla luce 7 figli), la pellicola canadese-irlandese ci immerge nella claustrofobica esistenza di Ma’ e Jack, giovane madre e delizioso bambino di 5 anni, che incontriamo in una fatiscente stanza di “2metrix2”, dove c’è tutto quello che serve solo a sopravvivere: cucinino, letto, armadio, tv, tavolo, wc. La luce e il mondo in alto, filtrati attraverso un piccolo lucernaio. Abrahamson ci fa entrare nella prigionia attraverso le percezioni di Jack dai capelli lunghi lunghi che è nato in quella stanza e conosce solo quel luogo, il suo unico e vero mondo. Il resto, fuori, è lo spazio, irraggiungibile, dove non si può vivere, dove nessun umano ha messo piede… La sua realtà – oltre a  Ma’ e a Uncle Jo, il carceriere che la notte entra nella stanza e dorme con Ma’ – sono gli oggetti che lo circondano e che condividono il suo tempo, tv compresa, aliena anch’essa, con esseri tanto strani quanto fantastici (e il mio rimando è subito andato a Tideland di Terry Gilliam e alla piccola Jeliza-Rose che tenta di sopravvivere con la sua immaginazione dentro un inferno). Room (Vincitore dell’ultima edizione del Festival di Toronto) non si ferma qui e non si concentra sulla claustrofobica e sofferente reclusione, ben rimarcata attraverso una drammatizzazione sottile, che arriva a farci perdere aria e spazio insieme a Ma’ accantonando ‘teatrali’ messe in scena di stati di esasperazione-sofferenza, facendoci invece vivere il quotidiano e la ricerca di una normalità che Ma’ tenta di imporre a lei e a suo figlio a tutti i costi. La pellicola supera quel momento, perdendo, dopo la salvezza di madre e figlio, molta della sua forza simbolica: rientrati nel mondo, la narrazione dell’empatia con una realtà che si era perduta (per Ma’) e che va scoperta per la prima volta (per Jack) si incardina nei normali binari di una narrazione visiva a caccia spesso di facili emozioni in chi guarda, a tutti i costi.

Una totale bella scoperta è The Wolfpack (Alice nelle città) l’esordio decisamente riuscito per Crystal Moselle (Gran Premio della Giuria al Sundance  Fetival nella sezione Documentari) che, aiutata dal caso, si è imbattuta per la First Avenue a Manhattan in 6 ragazzi a dir poco, particolari: vestiti come i personaggi tarantiniani de Le Iene… Venendo così a scoprire la loro incredibile storia. I fratelli Angulo, padre inca peruviano e madre statunitense, sono vissuti per ben 14 anni segregati in casa, uscendo appena nove volte l’anno, e in qualche anno non uscendo affatto. Il padre-padrone Oscar, unico detentore delle chiavi delle loro camere e della casa, imponeva alla moglie e ai figli anche come e quando potevano muoversi all’interno dell’appartamento, follemente deciso a proteggere la sua famiglia dalla contaminazione di un mondo esterno, di una città e società, come quella di New York. Il doc è incentrato sul racconto dei ragazzi, ripresi nel simulare una quotidianità scampata alla follia prevalentemente grazie al cinema. Centinaia e centinaia di film in Vhs e Dvd (tra cui anche Le Iene, naturalmente) hanno scandito le loro ore in camera… Talmente presi dall’unico mondo ‘altro’ che potevano esplorare, lo hanno letteralmente riprodotto: dalla trascrizione completa delle battute alla messa in scena dei film. Istruiti a casa dalla loro madre insegnante, i ragazzi erano esclusi da qualunque confronto con altri esseri umani. Una vera e propria tribù, quella degli Angulo, fissata anche nel nome e nel corpo dal culto Hare Krishna coltivato dal padre: Bhagavan, Govinda, Narayana, Mukunda, Krsna, Jagadisa e Visnu i nomi dei 7 figli, tutti rigorosamente con i capelli lunghi fino alle natiche. The Wolfapck convince per la capacità di lasciar realmente venir fuori ‘la verità’ in questa esperienza di vita estrema. Una verità che sta effettivamente dentro tutti i punti di vista: da quello della madre, donna di boschi e di libertà innamorata di un hyppie latino americano la cui giovinezza era carica di ideali di bellezza e di indipendenza. Di un uomo, Oscar, che la macchina da presa osserva dapprima come presenza fugace, fantasma-orco temuto-odiato dai figli, e che avvicina in spicchi di dialogo che una verità a loro volta contengono: il rifiuto del lavoro come ribellione ad una società del Capitale disumanizzante, la protezione dei suoi figli da una città degradante, violenta, assuefatta… Timore  estremizzato di una perdita di identità. Il sogno di scappare in Scandinavia andato in frantumi, rivelato dalla impassibile macchina da presa che ci mostra il degrado di un appartamento, l’assoluta alienazione di una vita che è anche folle resistenza, vana resistenza… Il potere salvifico dell’arte, anche questa è la verità che ci mostra The Wolfpack: di come il cinema abbia stimolato immaginazione e creatività nei fratelli Angulo, e spinto Mukunda, il più indipendente dei 6, ad uscire per strada, a disattendere l’ordine, ispirato da (The Dark Night) Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e a ‘liberare’ tutta la famiglia dai rispettivi fantasmi, Oscar incluso. Il mondo contiene i fratelli Angulo puri a loro modo, di un’alienazione incancellabile e allo stesso tempo di una propria e definita identità.

Ps. Perché un doc come The Wolfpack non è entrato nella Selezione Ufficiale?

Maria Cera

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