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Everest

Un film, Everest, che vale la pena di vedere, in particolare sul grande schermo, per condividere quella sensazione d’immensità che solo la Natura incontaminata può ancore regalare.

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Sinossi: Ispirato da una serie di incredibili eventi accaduti durante una pericolosa spedizione volta a raggiungere la vetta della montagna più alta del mondo, Everest documenta le avversità del viaggio di due diverse spedizioni sfidate oltre i loro limiti da una delle più feroci tempeste di neve mai affrontate dall’uomo. Il loro coraggio sarà messo a dura prova dal più crudele dei quattro elementi, gli scalatori dovranno fronteggiare ostacoli al limite dell’impossibile come l’ossessione di una vita intera che si trasforma in una lotta mozzafiato per la sopravvivenza.

Recensione: Un buon prodotto, ma non solo. Everest del regista islandese Baltasar Kormákur ci convoca a riflettere sui limiti umani, sull’opportunità di valutare giudiziosamente le nostre capacità, per non commettere quel peccato di vanità che, fatalmente, può indurci a compiere azioni al di là della nostra portata, per il piacere di superare se stessi, con il segreto (ma neanche tanto) intento di segnalare al mondo intero l’obiettivo spettacolare raggiunto. L’accesso di massa alla vetta più alta e inaccessibile del mondo comporta uno svilimento del rapporto uomo-natura, una desacralizzazione che riduce la portata mistica delle grandi imprese, che richiederebbero invece, a guisa di un incontro estetico sublime, un silenzio e un raccoglimento totali, proprio per poter elaborare internamente un giudizio che abbia una pretesa di universalizzazione comunitaria. Insomma, il sublime dell’immensità della natura toglie la parola, ci soverchia, e, dunque, volerlo profanare con il chiacchiericcio insulso da viaggio organizzato non può che comportare un fatale impoverimento che, come nel film in questione, produce effetti collaterali devastanti. L’occidente globalizzato parte alla volta di un mondo ancora intatto, con l’intento di colonizzarlo, di riempire il silenzio estatico con il brusio della deiezione quotidiana, ma la montagna austera e inaccessibile resiste.

Molto più, quindi, di un film semplicemente spettacolare, Everest di Kormákur stimola diverse riflessioni, e, soprattutto, condanna la tendenza del decrepito Occidente alla mercificazione indefinita dell’esistente, tracciando quei limiti, che, ancora, ci consentono di accedere con le dovute modalità a una dimensione altra, dove circola una riserva infinità di senso, a una zona di indecidibilità che, per fortuna, contrasta l’avanzata in pompa magna dello scibile. Dovrebbe essere proprio un nostro compito continuare a preservare l’aurea del non detto, e contribuire a difendere i confini di quel non luogo dove fedeltà e conoscenza s’incontrano. Accettare la dimensione infinità e globale di un ’evento’, rispetto al quale noi siamo ‘procedure’ locali e finite.

La gratuità del dolore provocato dal gran numero di vittime mietuto dalla montagna assume a tratti un tono quasi ridicolo, restituendoci esattamente lo spirito tragicomico dell’era post-moderna; si muore senza un perché, provocando una catena di sofferenza (sono coinvolti, ovviamente, anche i parenti più stretti che seguono da lontano l’impresa) inaudita, e induce quasi un senso di nausea vedere gli organizzatori della scalata barcamenarsi furiosamente per  tentare di limitare la portata della tragedia. Una fatale leggerezza che conduce inesorabilmente  a un punto di non ritorno.

L’utilizzo del 3D è, almeno in questo caso, funzionale a restituire l’immensità degli spazi ripresi, rendendoci assai partecipi di tutto lo svolgimento dell’azione. Un film, dunque, Everest, che vale la pena di vedere, in particolare sul grande schermo, per condividere quella sensazione di grandiosità che solo la Natura incontaminata può ancora regalare.

Luca Biscontini

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