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DragonTrainer

«”DragonTrainer”: una parabola pacifista che fa leva sul sentimento della gratitudine reciproca, sul coraggio di compiere il primo passo».

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Nell’eterno conflitto fra un villaggio vichingo e uno sciame di draghi infestanti, il piccolo Hic — assai poco vichingo di modi e d’aspetto — prova a battere una pista nuova, quella di un cauto dialogo fra “culture” diverse. Grazie all’amicizia casuale con un pericoloso drago nero, scopre la strada di una forma di convivenza pacifica, a partire dall’abolizione del principio di “sparare a vista” imperante, fino ad allora, fra due mondi tanto differenti. Una parabola pacifista che fa leva sul sentimento della gratitudine reciproca, sull’epica della collaborazione contrapposta a quella della competizione, sul coraggio di compiere il primo passo. Una parabola estremamente attuale, non appena si esca dalla metafora mitologica per guardare con occhi nuovi alla realtà e alla storia. Occhi di bambino, naturalmente.

DragonTrainer, cioè l’addestratore di draghi, riesce infatti nel difficile compito di conciliare intrattenimento per ragazzi e tematiche per adulti, senza sconfinare nella favola o eccedere in sottigliezze. Abbiamo un adolescente inquieto, mingherlino ed emarginato, un’animazione più che soddisfacente, un’intera gamma di draghi sputafuoco e sequenze d’azione molto curate; e, di contro, linee di dialogo che sembrano rubate a un Woody Allen prima maniera, diversi livelli interpretativi e un classico ma non banale rapporto padre—figlio. Abbiamo una perfetta scansione narrativa, un accenno di love story fra ragazzi, simpatici personaggi di contorno e, complessivamente, un non originale ma dignitoso bildungsroman in forma di commedia, per fortuna poco contaminato da fastidiosi legami con la modernità, come capita spesso nell’animazione dell’ultimo decennio — anche se infastidisce parecchio l’aspetto del drago protagonista, Sdentato, ricalcato sui mostriciattoli giapponesi Pokemon dai recidivi produttori (vedi Lilo & Stitch), nel patetico tentativo di accalappiare consensi fra ragazzini teledipendenti.

Non abbiamo un capolavoro, in ogni caso. Manca forse un po’ di pepe e di coraggio in più all’interno di una storia che pure non difetta di inventiva, e manca una voce supplementare a rendere più solido il tema finale a favore del dialogo fra diversi. “Tutto quello che sapevamo su di loro è sbagliato”, sottolinea Hic a proposito della presunta natura maligna dei draghi, ed è la frase più simbolica del film. Grazie ad essa il ragazzo si accinge a spezzare l’eterna faida di morti e vendette, anche a scapito di una sospirata integrazione personale nel popolo guerriero che a lungo lo ha tenuto ai margini. Però al di là del benefico e opportuno memento di saggi precetti, non c’è l’aggiunta di un ingrediente in più in grado di stabilire un’evoluzione successiva. Ma forse è chiedere troppo a un prodotto che fa egregiamente il suo dovere, e non mira ad altro.

Una parentesi inevitabile sulla questione 3D. DragonTrainer è forse uno dei film che meglio sfrutta e gestisce la tridimensionalità, con più inventiva di quanto non facesse Avatar, tanto per spararla grossa. E questo è un bene. La nuova tecnologia funziona eccome. Ma è utile? Arricchisce il discorso cinematografico, lo impoverisce, lo lascia tale e quale? Sembrerebbe più l’ultima delle tre. Al di là del fastidioso impiccio di plastica che sega naso e orecchie, si rafforza l’impressione che si stia facendo tanto rumore per nulla. Lo schermo si restringe in larghezza per far posto allo “spessore”, e questo pare un dato di fatto — e un difetto considerevole. I colori si snaturano e perdono brillantezza a causa del verde e del rosso delle lenti. Il coinvolgimento è maggiore? Ciascuno per sé, si farà un’idea. Intanto, però, il prezzo del biglietto cresce paurosamente, e scovare sale decenti che propongano queste pellicole nelle classiche due dimensioni sta diventando un’impresa. E questo è un male.

Gianluca Wayne Palazzo

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