Sinossi: Dopo essersi lasciato alle spalle la propria carriera di spogliarellista ormai già da tre anni, Mike viene a sapere che anche i rimanenti ‘Re di Tampa’ sono pronti a gettare la spugna.Ma vogliono farlo a modo loro, dando vita a un ultimo incandescente spettacolo in occasione di un’importante convention annuale di stripper, con il leggendario Magic Mike insieme a loro sul palco. Sulla strada per il loro ultimo show, tra una fermata a Jacksonville e una a Savannah, Mike e i ragazzi ritrovano vecchie conoscenze e fanno nuove amicizie, imparano nuove movenze e cercano di scrollarsi di dosso il peso di un passato ingombrante e le paure di un futuro che appare più che mai incerto.
Recensione: Dopo il successo di pubblico e critica del primo Magic Mike di Steven Soderbergh (basato sulla vera storia del protagonista Channing Tatum) arriva nelle sale questo sequel in cui l’autore limita il proprio ruolo alla produzione (in realtà è accreditato anche come montatore e direttore della fotografia) per lasciare l’onere della regia al suo collaboratore di lungo corso Gregory Jacobs. Fedele al precetto che vuole che ricetta vincente non si cambi, Jacobs si limita in sostanza a prendere gli ingredienti fondamentali del film del 2012 e ad aumentarne a dismisura il dosaggio, per cui troviamo qui ancora più musica, più spogliarelli e ancora più insistite e provocatorie allusioni sessuali. Magic Mike XXL finisce quindi con l’essere un film eccessivo in ogni senso.
Il viaggio che funge da plot è semplicemente un pretesto e la stessa struttura scelta – quella del road movie – non ha altro scopo che permettere all’autore di affastellare in maniera fluida una serie di siparietti che dosano abilmente goliardia e una sottile vena di malinconia per il passare inesorabile del tempo, senza affannarsi troppo alla ricerca di un quadro d’insieme coeso. Anche la presenza di guest star di lusso (dalla signora Depp, Amber Herd a Jada Pinkett Smith, fino a una ritrovata e divertita Andie MacDowell in versione MILF) è puramente ornamentale, utile semmai a dare colore e a scandire i ritmi del viaggio attraverso una serie di contraltari femminili anche piuttosto idealtipici dei cinque protagonisti.
Il film in quest’ottica fa il suo onesto lavoro e non delude affatto. E se, in alcuni passaggi più introspettivi, si intravedono anche i segnali del Sunset Boulevard dello striptease che Magic Mike XXL sarebbe potuto essere, l’insistita reiterazione dei numeri musicali sgombra puntualmente il campo da qualsiasi possibilità di misunderstanding.
Non si tratta infatti di una riflessione sul corpo e sulla sua caducità – sebbene la presenza nel cast di Kevin Nash riporti alla mente, in più di una scena, la fisicità sfatta e ingombrante di Mickey Rourke in The Wrestler – bensì di un semplice giro sull’ottovolante di una fiera di paese. In altre parole Magic Mike XXL è il corrispettivo cinematografico di un burrito o di una qualsiasi di quelle pietanze grasse e bisunte che potremmo ordinare al bancone di una tavola calda sperduta su qualche highway nel bel mezzo del nulla e sulle cui proprietà nutritive a nessuno verrebbe mai in mente di farsi troppe illusioni.
Chiarito questo aspetto, è interessante semmai rilevare come un prodotto del genere trovi inevitabilmente senso, oltre che una perfetta collocazione, all’interno di una cultura, quella americana, che si nutre quotidianamente di questo genere di cibo e che non si nega mai la possibilità di camminare a testa abbastanza alta sul confine che separa il buono dal cattivo gusto e che in questo film pure a tratti si lambisce. Diverso è il discorso per quanto riguarda il pubblico italiano, molto meno avvezzo a giocare con i propri limiti culturali perché in parte ancora impegnato a tracciare sterili e obsolete linee di demarcazione tra alto e basso.
Gregory Jacobs invece – e, prima di lui, Soderbergh – in queste contraddizioni ci sguazza, senza suggerire neanche la fastidiosa posa dell’intellettuale che filma il trash premurandosi di restarne con un piede al di fuori. Magic Mike XXL è infatti in ogni sua scena esattamente ciò che sembra e non nasconde la propria natura ludica dietro chissà quale pretesa intellettuale. E’ un film anche “tamarro”, allo stesso modo in cui può esserlo un Fast and Furious, e se porta a casa il risultato lo fa proprio in virtù del suo autodefinirsi in modo così netto, senza né vergognarsi del suo essere un prodotto di pancia né tanto meno fingersi altro da una rumorosa e patinata vetrina di corpi scultorei, a uso e consumo di una platea prevalentemente femminile.
Chapeau!
Fabio Giusti