Statistiche dimostrano che tra le figure più rappresentate in oltre un secolo di vita della Settima Arte ci sia quella del vampiro. Si calcola, infatti, che siano stati fatti più di un migliaio di film sul succhia sangue per eccellenza, tra cui un’abbondante sessantina con Dracula protagonista. Si è venuto a creare così una sorta di filone cinematografico che ha dato origine a sua volta a sotto-generi, ognuno dei quali con caratteristiche ben precise. Da quello che è riconosciuto il capostipite, ossia Nosferatu di Fredrick W. Murnau del 1922, il personaggio del vampiro, che ha le sue radici letterarie a partire dall’Ottocento con autori come John Williams Polidori (The Vampyre) e Bram Stoker (Dracula), è stato portato sul grande schermo in tutte le salse possibili e immaginabili.
Dunque, trovare una chiave differente da proporre al pubblico e agli amanti del genere è compito arduo, ma i fratelli Peter e Michael Spierig, qui all’opera seconda dopo lo straordinario successo del fortunato zombie-movie Undead, pare ci siano riusciti, seppur con qualche scivolone narrativo di troppo, mescolando tutto quello che sceneggiatori e colleghi registi hanno “partorito” prima di loro. Il risultato è Daybreakers, ibridazione di generi che mutano a random in una successione spesso imprevedibile, mettendo lo spettatore davanti ad un continuo cambio di registro, dal più classico degli horror al fanta-thriller, passando per lo splatter e l’action. In questo gli Spierig si sono dimostrati molto più all’altezza di altri tentativi andati a vuoto come l’altalenate trilogia di Blade.
Adrenalina e sangue a volontà sono elementi imprescindibili del genere vampiresco ed elementi chiave della pellicola firmata dai due registi australiani, capaci di spingere il piede sull’acceleratore tutte le volte che dalle parole si passa ai fatti: pregevoli le coreografie dal punto di vista tecnico-stilistico e da quello più squisitamente ritmico, supportate da effetti visivi di ottima fattura (firmati neanche a dirlo dalla Weta). Peccato che, a fronte di un’indubbia riuscita sul versante della trasposizione in immagine (notevole la fotografia di Ben Nott), ci sia un’instabilità narrativa evidente, che trova il suo anello debole soprattutto nell’impianto dialogico. La storia, seppur retta da spunti e trovate originali, soffre di una cronica caduta di suspense e tensione, che determina una serie di passaggi a vuoto, tanto nello sviluppo della vicenda, quanto in quello dei singoli personaggi. Perfetto per una serata all’insegna di un frullato di paletti di frassino e frattaglie, il film resta comunque godibile, merito del cast e dello stile coinvolgente dei due registi.
Francesco Del Grosso
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