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Non Essere Cattivo di Claudio Caligari: l’addio al punto di vista forgiato sul campo

Non Essere Cattivo è un’opera importante, agognata, sudata, un film che racconta la ballata triste di due ragazzi di vita, nati in periferia, assolutamente privati anche della possibilità di provare a sperare in un futuro quantomeno dignitoso

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Potrà anche sembrare patetico o stucchevole, ma durante tutta la proiezione di Non Essere Cattivo, l’opera postuma di Claudio Caligari,  si ha come un perenne groppo alla gola, si avverte la sensazione di essere davanti a qualcosa di crepuscolare, di definitivo, di essere davanti alla fine di un’era, alla fine di una viscerale poetica, se volete, al tramonto assoluto di un cinema che è vita e morte, di un cinema che si nutre della strada, dei personaggi  che la popolano e che con essa annaspano, obbligati, da un intatto spirito ribelle, a sopravvivere, dinosauri dialettali che, a loro modo e con gli strumenti in loro possesso, tentano di respingere, anche inconsapevolmente, l’omologazione culturale di massa che avanza, esseri genuini ma miserabili, invisibili nella loro pur chiassosa tragicità.

Claudio Caligari ci lascia così il suo epitaffio, la sua ultima prova autorale e lo fa nel modo migliore, quello che prediligeva e che tanto amava, raccontando, ancora una volta, la borgata, la borgata degli anni novanta, il momento spartiacque nel quale il mondo pasoliniano finisce, si estingue, mentre la spicciola cultura televisiva non solo avanza, ma si impone quale illusorio status symbol, destinato ad avvolgere anche l’impreparato proletariato, uno strapotere plastificato che diviene inconsapevole e totale perdita di autenticità, appiattendo, con il suo incedere dittatoriale, tutte quelle piccole realtà tanto amate dal regista di Arona e con loro tutti quei genuini sapori, odori ma anche gerghi e modi di fare figli di un’epoca estinta. Non Essere Cattivo è un’opera importante, agognata, sudata, un film che racconta  la ballata triste di due ragazzi di vita, nati in periferia, assolutamente privati anche della possibilità di provare a sperare in un futuro quantomeno dignitoso, è la storia di Cesare e Vittorio, rispettivamente interpretati dalle autentiche rivelazioni Luca Marinelli e Alessandro Borghi, due amici, ma prima ancora due fratelli, cresciuti ad Ostia, ai margini del centro, due di quelli che si arrangiano come possono, infrangendo la legge, dediti allo spaccio di droghe sintetiche e a piccoli furtarelli, due accattoni, due  che si bevono la vita così come viene, nelle discoteche e nei locali di quartiere, fra risse, piste e ragazze. La tragedia che diviene vita e la vita che diviene tragedia, sullo sfondo di un mondo emarginato, morente, in cui la droga crea allucinazioni terribili e la realtà è addirittura peggio dello sballo quotidiano. Una storia dove tutto viene dosato attraverso un realismo davvero imperiale e lungimirante, si, Ostia è davvero Ostia, il Lido, la spiaggia, il bar, le case, lo squallore che ingoia vite sbandate, tutto è vero, tangibile, doloroso nella sua asciuttezza, come il rapporto tanto materiale quanto sentimentale dei due amici protagonisti, dai caratteri opposti e che pure si attraggono ossessivamente, un rapporto talmente solido, virile e controverso che riporta alla memoria quello degli allora giovani Harvey Keitel, nel ruolo di Charlie Cappa, e Robert De Niro in quello dello schizzato Johnny ‘Boy’ Civello  in Mean Streets (1973), di Martin Scorsese, una similitudine ovvia, tanto che il Cesare di Marinelli, nel film, indossa un cappello molto simile a quello del Johnny Boy di De Niro e più o meno ne ricalca le gesta. Un film, quello di Scorsese, da sempre uno dei registi più apprezzati da Caligari, che per stile di regia e trovate tipicamente tecniche ci sembra l’ ovvia e giusta fonte di ispirazione per Non essere Cattivo, senza che quest’ultimo ne diventi, mai, la sterile copia italianizzata, ma sul quale fa intelligentemente leva per elevarsi, ancor di più, a purissima forma espressiva del malessere sociale in un ben preciso momento storico italiano, quello della metà degli anni novanta, dove la borgata declinava ma con essa era destinata ad affossare anche l’Italia sociale e politica.

In sostanza, questo è stato e tuttora è il mondo di Caligari, la strada, “il giro”, l’amicizia virile, mascalzona, si, ma sincera, un mondo afflitto dal disagio in un isolamento imposto, al quale ci si ribellava con la rozzezza degli animali in trappola, come quella del volubile Cesare, attratto da quei soldi (facili) che non potrà mai avere, o quella del più chiuso Vittorio che a tutto ciò tenta di dire no con la carta del lavoro onesto, faticoso e poco redditizio, ma che lava la coscienza; perché nella realtà di Non Essere Cattivo le uniche due strade sono quelle, “lavorà con le mani, nei cantieri, o menà le mani, fra furti e spaccio”, una condizione umana non scelta, non sposata ma che diviene naturale, da accettare o fronteggiare. In fin dei conti è il mondo che cinquanta anni orsono aveva molto ben raccontato Pier Paolo Pasolini con Accattone, tragicamente interpretato dalla romana maschera di Franco Citti,  solcata dalla rabbia, dalla fame e dalla miseria, siamo sempre lì, in quel ghetto mal visto chiamato borgata, dove quei vivaci bambini presi a calci prima e derubati poi dall’accattone Citti sarebbero cresciuti e divenuti uomini, con le sembianze dei giovani drogati di  Amore Tossico (1983), nella Ostia degli anni ottanta, a cui tutto è stato sottratto e niente regalato, o dei rapinatori sbandati, ironici ed aggressivi in L’Odore Della Notte (1998), anomali e (non) giustificati Peter Pan nella più profonda periferia romana, che rubavano ai ricchi per dare ai poveri, cioè a loro stessi, e ancora, anni più tardi, si sarebbero tramutati nei ragazzi di vita degli anni novanta, quelli delle droghe sintetiche e dell’ultimissima borgata, proprio quelli raccontati ora, con tanto amore e oggettività in Non essere Cattivo, dove la speranza non esiste, è un lusso e un’utopia, e se c’è non è la loro.

Caligari nel 2015, l’anno del suo agognato e non goduto ritorno alle scene, ci mostra il suo ultimo punto di vista, qui riproposto con la maturità consapevole di un regista dallo sguardo lucido, uno di quelli che il punto di vista ce l’aveva non per mero sentito dire, ma perché lo aveva cercato, voluto e vissuto, lui, a detta dello stesso amico Valerio Mastandrea, il punto de vista se lo andava a fare, prima di scrivere, lui non raccontava ciò che non conosceva, lui raccontava la vita che sapeva e che in fondo, in fondo, in un sorta di specchio riflesso, era proprio la sua nel mondo del cinema italiano, un cinema che, diciamolo apertamente, di lui se ne è sempre fregato, che non lo ha mai amato, nè apprezzato, se non ora, dopo la sua dipartita e quindi in evidente scoppio ritardato; ora si fa un gran parlare dell’uomo e del regista, anche all’ultima mostra del cinema di Venezia appena conclusasi, è stato riscoperto e rivalutato, con la solita ipocrisia borghese che contraddistingue questo paese cattolico e moralista, ipocrisia che si riflette negli incassi del film, poco più di centomila euro in una settimana di programmazione, e che finge di vedere le cose buone solo quando si rende conto che ormai è davvero tardi. Un paese, l’Italia, moralmente molto più povero delle borgate raccontate da Caligari, tutto sommato permeate di un sottile sentimento molto personale, un paese completamente ammazzato dalla superficialità e che tanto avrebbe bisogno di un cinema così cinema, di un regista così regista e di un uomo così uomo, quale è stato Claudio Caligari, autore sensibilissimo e onesto, in grado di raccontare con poco un’Italia randagia, schivata ma autentica, lui, che dopo la morte di Sergio Citti ha incarnato davvero l’ultimo pasoliniano, l’ultimo regista della borgata, quello dei tre, bellissimi, film in trent’anni di carriera.

Ciao, Cla.

Manuele Bisturi Berardi.

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