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In Sala

Southpaw – L’ultima sfida

Se la mancanza di sfumature non impedisce a Fuqua la costruzione di alcune scene sul ring oggettivamente bellissime, la stessa cosa non si può dire per il film nel suo complesso che, a fine visione, rimane impresso come una sorta di adrenalinico bignami di tutto ciò che ci si aspetta di vedere in un film che abbia come protagonista un boxeur

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Sinossi: Billy “The Great” Hope è il campione mondiale dei pesi massimi leggeri.

Tecnicamente il suo stile è aggressivo e brutale, poco incline a parare gli attacchi ma implacabile quando c’è da assestare il colpo vincente.

Dopo un’infanzia passata in orfanotrofio e la dura esperienza del carcere, Billy sembra ora aver realizzato tutti i suoi sogni: una grande carriera, una moglie bellissima, una figlia che lo adora e uno stile di vita invidiabile.

La tragedia però è in agguato e l’uomo impara a sue spese quanto sia facile ritrovarsi da soli quando le cose iniziano a mettersi male.

Basta un attimo e tutto svanisce, compresi i soldi e gli amici di una vita.

Ma è quando viene abbandonato anche dal suo manager e amico storico Jordan Mains che Billy tocca davvero il fondo e, di fronte al rischio di perdere la custodia della figlia, trova il suo unico alleato nel malmesso ex pugile Tick Willis, ormai da anni allenatore di ragazzi di strada.

Con il suo aiuto affronterà la battaglia per riappropriarsi di tutto ciò che gli è stato sottratto, combattendo per redimersi e riconquistare la fiducia delle persone che ama.

Recensione: Da Lassù qualcuno mi ama fino a The Fighter, passando per Rocky, Toro scatenato e Million Dollar Baby, la lista dei film che hanno definito i canoni stilistici del boxing movie è lunghissima e parte da lontano.

Nessun altro sport al pari della boxe è capace di esprimere, combinandoli assieme, la voglia di riscatto e il profondo sacrificio che questa comporta, oltre allo scarto che spesso, in un uomo, interviene a distanziare i suoi meriti umani da quelli sportivi.

Solo che l’immenso valore – sia artistico che, in alcuni casi, emotivo – dei titoli citati poc’anzi, oltre a definire un genere, restringe di molto il campo delle possibilità di chiunque provi a cimentarsi oggi con un film a tema pugilato.

Soprattutto se a farlo è Antoine Fuqua, regista muscolare e rabbioso (una sorta di Tony Scott leggermente meno patinato ma anche meno capace di guizzi) per nulla avvezzo all’uso dei mezzi toni.

Se la mancanza di sfumature non impedisce a Fuqua la costruzione di alcune scene sul ring oggettivamente bellissime, la stessa cosa non si può dire per il film nel suo complesso che, a fine visione, rimane impresso come una sorta di adrenalinico bignami di tutto ciò che ci si aspetta di vedere in un film che abbia come protagonista un boxeur.

Basta pensarci un attimo e citare uno qualsiasi dei topoi più classici del genere e in Southpaw c’è.

Il cotè criminale à la The Fighter?

C’è.

Un lunghissimo montaggio alternato dei due sfidanti che si allenano prima del fatidico scontro finale?

Inutile a dirsi, c’è.

Il “dalle stelle alle stalle” mostrato attraverso il passaggio da una villa faraonica alla squallida palestra di periferia in cui il protagonista è costretto a ricominciare da zero per ritrovare se stesso?

C’è anche questo, ovvio.

Inutile dire poi che la leva motivazionale che spinge lo stesso protagonista nel suo percorso di redenzione è rappresentato – Adriana Balboa docet – da una donna.

C’è proprio tutto in Southpaw, solo architettato in modo talmente idealtipico da risultare posticcio.

Premesso quindi che la scelta per il regista poteva magari indirizzarsi su altri nomi, da uno sceneggiatore del calibro di Kurt Sutter (creatore della pluripremiata serie TV Sons of Anarchy) era invece lecito aspettarsi di più, se non altro in termini di riscrittura di un canovaccio che più classico davvero non si può.

L’impressione è che Sutter abbia rinunciato fin da subito all’idea di proporre qualcosa di originale (in un primo momento il film era stato concepito come un remake de Il campione di Zeffirelli con Eminem protagonista) per concentrarsi quasi esclusivamente sugli angoli del ring.

Gli elementi sui quali è più forte l’intervento dell’autore sono relegati spesso ai margini delle inquadrature, in certi scampoli di conversazioni virili tra i personaggi che, di tanto in tanto, interrompono la costante quanto fastidiosa impressione di già visto.

Discorso a parte va fatto per il protagonista, Jake Gyllenhaal.

Una volta appurata infatti l’esilità della storia e del suo impianto strutturale, il principale motivo d’interesse del film diventa quasi esclusivamente la sua eccezionale performance, che fa il paio – anche in termini di impressionante mimesi fisica – con quella dello scorso anno nel bellissimo Lo sciacallo – The Nightcrawler.

Gyllenhaal incarna in maniera perfetta la parabola cristologica di un uomo distrutto, sia nel corpo che nell’anima, e lo fa con una generosità rara, filtrata attraverso un delicato lavoro di sottrazione.

 sufficiente la fissità espressiva, figlia dei troppi pugni presi, e l’afasico balbettio con cui connota il suo Billy Hope per realizzare come l’ex ragazzino di Donnie Darko sia ormai definitivamente cresciuto, fino a diventare uno degli attori più raffinati e credibili della sua generazione.

Si può solo immaginare cosa potrebbe fare se diretto da uno Scorsese o da un Michael Mann.

Arricchiscono il cast un Forest Whitaker che è sempre un piacere vedere all’opera e Rachel McAdams, fresca reduce dall’importante banco di prova della seconda stagione di True Detective e qui poco più che ornamentale.

 Fabio Giusti

  • Anno: 2015
  • Durata: 124'
  • Distribuzione: 01 Distribution
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: USA
  • Regia: Antoine Fuqua
  • Data di uscita: 02-September-2015

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