Film da Vedere
“I soliti ignoti” di Mario Monicelli
È uno dei capolavori del regista Monicelli e conseguí due nastri d’argento e una candidatura ai premi Oscar 1959 come miglior film straniero
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9 anni agoon
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RedazioneI soliti ignoti è un film del 1958 diretto da Mario Monicelli.
La pellicola è universalmente nota come caposcuola del genere caper movie italico, ovvero avente come tema il furto di gruppo. È uno dei capolavori del regista Monicelli e conseguí due nastri d’argento e una candidatura ai premi Oscar 1959 come miglior film straniero.
I soliti ignoti è stato in seguito inserito nella lista dei 100 film italiani da salvare, nata con lo scopo di segnalare “100 pellicole che hanno cambiato la memoria collettiva del Paese tra il 1942 e il 1978”.
L’idea di base del film e soprattutto il finale sono tratti dalla novella Furto in una pasticceria nell’antologia Ultimo viene il corvo di Italo Calvino.
Con questa pellicola di Monicelli, la critica e la storiografia del cinema italiano sanciscono l’esordio ufficiale di un nuovo genere cinematografico, in seguito ribattezzato Commedia all’italiana, che si accompagnerà al neorealismo, al filone storico mitologico peplum e lo spaghetti-western, consacrando il cinema italiano del dopoguerra.
Con I soliti ignoti nasce in Italia un nuovo tipo di commedia comica che abbandona i canoni consueti, ispirati alla tradizione dell’avanspettacolo, del varietà o del Cafè Chantant, e che ereditando il testimone del neorealismo, ha per tema la quotidianità, la gente comune, con precisi riferimenti sociali nei quali il pubblico può riconoscersi.
Gli interpreti di questa pellicola abbandonano il ruolo di maschera teatrale – che gioca la comicità basandosi sulla gag, il gioco di parole od il nonsense – qui articolando i dialoghi e le trovate umoristiche su prove definite, a volte caricaturali, ma riferite comunque ad una sceneggiatura chiara.
Molti critici vedono nel personaggio interpretato da Totò un ipotetico passaggio generazionale della Commedia Italiana, dall’epoca del geniale attore napoletano – il “Principe della Risata” – a quella che un gruppo agguerrito di sceneggiatori (come Sergio Amidei, Rodolfo Sonego, Age e Scarpelli, Ettore Scola e Ruggero Maccari) baseranno nel raccontare la realtà in un momento storico critico ed importante, ricco di contraddizioni, di incompatibilità tra vecchio e nuovo, di identità fallaci ed effimere, costruite spesso su dei condizionamenti sociali ed ingerenze culturali esterne.
L’ideazione de I soliti ignoti nasce in chiave caricaturale. Come lo stesso Monicelli ammette, si voleva in principio parodiare un certo genere di film noir francese o di gangster americano, particolarmente in voga in quegli anni, ed apprezzato da un vasto pubblico italiano. Il soggetto si ispira al film drammatico francese Rififi di Jules Dassin del 1955, dove una banda di quattro criminali professionisti intraprende un colpo perfetto che si rivelerà fallimentare e come narra il regista toscano, uno dei titoli provvisori era il parodistico Rifufu..
Sarebbe tuttavia erroneo ritenere I soliti ignoti limitarsi a mera parodia di altri titoli illustri in quanto lo stesso film si arricchisce di novità importanti e di contesti originali nel corso della sua produzione, in quanto era concezione del regista darvi una connotazione tragicomica.
I soliti ignoti, secondo il regista Carlo Lizzani, porta il comico fuori dei confini abituali della farsa acquisendone una propria consistenza cinematografica. Per la prima volta in una commedia italiana si assiste alla morte tragica di uno dei protagonisti. La morte o comunque il fallimento è una tematica fondamentale nella cinematografia di Monicelli, in quanto come egli spiega, facente parte della stessa essenza e della tradizione della commedia dell’arte, caratterizzata da presenze maligne, da sventure e da personaggi miseri, emuli delle maschere di Arlecchino e Pulcinella, che si adoperano nella vana ricerca di un espediente definitivo e risolutivo.
La vena drammatica della pellicola non si esaurisce solo nei personaggi, bensì si accompagna al ritratto di una Roma estranea ai processi economici del boom di quegli anni. È la Roma dei quartieri popolari, della periferia degradata, del sottoproletariato urbano, a far da sfondo tragico alle gesta della miserabile banda del buco, la stessa Roma ritratta dal coevo Pier Paolo Pasolini in Ragazzi di vita. È significativo il breve dialogo tra Capannelle con un ragazzino al quale si rivolge per chiedere informazioni su un certo Mario, perfetta memoria della narrativa pasoliniana.
La fotografia fu particolarmente curata da quest’ultimo punto di vista. Le immagini dovevano restituire l’idea di una Roma drammatica, per cui furono evitati volutamente i toni eccessivamente luminosi, si preferirono i contrasti e i tagli decisi e nei costumi si evitarono le concessioni al vezzo e alla comodità, curando invece quello che doveva fornire l’estemporaneità di un abbigliamento dettato solo dallo stato di indigenza (vedansi i pantaloni da cavallerizzo che Capannelle indossa per tutto il film).
Il film per la sua novità non fu accolto favorevolmente dalla critica ufficiale, che aveva ben chiari i riferimenti. Da principio non fu apprezzata la scelta di sostituire i comici d’arte con degli attori seri già affermati in contesti drammatici (Vittorio Gassman); Totò, notoriamente non amato dalla critica colta ma fortemente caldeggiato dai produttori, fu giudicato eccessivo nonostante la sua interpretazione limitata. In sostanza, l’ambiente ufficiale non era pronto ad accogliere quella che si rivelerà la trovata ad effetto del film, la trasformazione di attori seri in “caratteri” della commedia, dotati di una grande vis comica. La scena del set comico, nella opinione dei critici più severi, avrebbe dovuto somigliare ancora al palcoscenico di un varietà dove i maestri solitari, coadiuvati da abili spalle, si avvicendavano nell’intrattenimento del pubblico.
Gli stessi produttori contrastarono a lungo la scelta di Vittorio Gassman (la produzione pensò ad Alberto Sordi). La sua aria intellettuale e soprattutto il suo repertorio teatrale drammatico unito ai ruoli “cattivi” che aveva interpretato in precedenza non davano alcuna garanzia di successo. Ma regista e sceneggiatori seppero resistere alle richieste dei produttori. Avevano modellato tutti i personaggi intorno ad un baricentro realistico e li avevano poi corredati di un patrimonio farsesco sul quale si sarebbe dovuta giocare tutta la comicità. Per “il Pantera” si ricorse ad un trucco pesante che abbassò l’attaccatura dei capelli, ridusse la fronte spaziosa accentuando il naso e rendendo cadenti le labbra, in quell’aria da ebete caratteristica di un pugile suonato di periferia. Fu studiata l’andatura e infine concepita la balbuzie, con effetti comici esilaranti.
Al di là delle caratterizzazioni dei personaggi è importante definire quello che sarà un tema importante e ricorrente del genere, una costante che seppur trasformata rimarrà centrale nel corso della storia decennale della commedia all’italiana, dal suo nascere, alla fine degli anni cinquanta, sino al suo tramonto, alle metà degli anni settanta: la rappresentazione del sistema sociale attraverso le classi e la critica dura alla società del benessere, colta nei suoi scompensi e nelle sue contraddizioni.
I soliti ignoti da questo punto di vista è un grande mosaico storico che ci restituisce con leggerezza l’immagine complessa di un’epoca. Un mondo di povertà urbana che resiste nei suoi valori tradizionali all’attacco della nuova società di massa della quale però sente un’attrazione sempre più forte. Società che viene nel film rappresentata esclusivamente dai miti di importazione americana: facile benessere economico, liberalizzazione dei costumi sessuali, comfort abitativi. La connotazione farsesca nasce sul modo di rapportarsi che i protagonisti hanno con questa doppia identità, divisi tra tradizione e innovazione. I valori tradizionali di riferimento rimangono sempre benevoli ed evidenti sullo sfondo della vicenda e sono rappresentati via via da quasi tutti i personaggi: da Carmelina Claudia Cardinale (la sicurezza del vero legame affettivo), dalla dolcissima Nicoletta Carla Gravina (l’innocenza) e dallo stesso Cruciani Totò (la saggezza della vecchiaia). Il gruppo rimane titubante per tutta la durata del film, nessuno riesce con convinzione ad abbracciare quello spirito nuovo che viene riflesso dalla società del benessere, nemmeno il protagonista, “il Pantera”, che solitario in un’opera di autoconvincimento continua a ripetere: «È sc-sc-scientifico!», quindi moderno, quindi giusto, legale, morale.