Un libro di denuncia che si propone quale rivoluzione culturale, e un adattamento cinematografico che ne mette in scena l’umanità narrata nelle forme di un inferno grottesco
Ci proponiamo di enucleare brevemente in questa sede alcune risonanze semiotiche differenti del libro di Roberto Saviano Gomorra (Mondadori, Milano 2006) e dell’omonimo adattamento di Matteo Garrone (2008).
Saviano ci pare fondamentalmente un autore umanista e progressista; la sua Gomorra scandaglia e narra da vicino un ambiente criminale e patologico per concedergli dignità pubblica di visibilità e una qualche possibilità di mutamento, assurgendolo al contempo a paradigma di un modello economico, culturale e psicologico oramai imperante e globale (il neocapitalismo, i suoi eccessi, la sua libido consumistica e ferina, i suoi idoli, con tutte le relative contraddizioni); vero e proprio tsunami culturale di rilievo internazionale, pur nell’estrema tragicità delle storie messe a fuoco, il libro di per sé riesce a evocare anche un senso tenue, e non superficiale, di speranza in un futuro di cambiamento, riallacciando ponti fecondi tra certo pensiero critico di matrice marxista e l’uomo concreto e comune ascrivibile alle “periferie” del benessere: due “poli” che, in Italia in particolare, paiono da tempo essersi paradossalmente in larga parte allontanati, complici anni di fanatismi e disillusioni ideologici, di snobismo di certo ceto intellettuale nei confronti di una società televisiva alla deriva, di disinteresse e debolezza della classe politica di “sinistra”.
Garrone è invece un autore legato a una tradizione estetica e cinematografica grottesca: quella irredenta dei “mostri” di risiana memoria, tipici della nostra cultura consumistica più vorace e autodistruttiva.
Pur lavorando con gli stessi strumenti critici di matrice marxista e debordiana utilizzati da Saviano, oltre che sulla medesima materia antropologica messa a fuoco nel testo originale (l’habitat camorristico), il regista romano tende a soffocare in una temperie ipertroficamente e ferocemente iconoclastica (rispetto ai cliché più diffusi su un’Italia berlusconiana salubre e gaudente) e in un immaginario marcatamente distopico ogni traccia sensibile di umanismo progressista che invece animava diffusamente il pathos delle pagine del libro e il senso profondo di quella operazione letteraria e culturale, tendente a ricollocare la nuda materialità delle “periferie” della civiltà del benessere al centro degli investimenti simbolici, analitici, sociali e materiali del mondo della sinistra.
Nell’economia simbolica e figurativa del lungometraggio a niente e nessuno sarà d’altro canto concesso di salvarsi; tutto viene defigurato e insabbiato nell’orrore, nell’allucinazione iperrealistica [1] e in una generalizzata pulsione di morte.
Sintomatica a riguardo l’ironia asettica e feroce che il film impiega frequentemente per commentare i sogni di benessere deliranti e a buon mercato e altre rimozioni e contraddizioni culturali dell’antropologia camorristica che, viceversa, nell’io narrante dello scrittore suscitavano afflati emotivi e “nazional-popolari” di disperazione, risentimento politico-civile e pietà [2].
Francesco Di Benedetto
[1] Sull’utilizzo filmico, in modalità stranianti e grottesche, del registro estetico dell’iperrealismo, cfr. Roy Menarini, Generi nascosti ed espliciti nel recente cinema italiano, in Riccardo Guerrini, Giacomo Tagliani e Francesco Zucconi (a cura di), Lo spazio del reale nel cinema italiano contemporaneo, Le Mani, Recco 2009, p. 49.
[2] Sull’impiego da parte del testo filmico della figura retorica dell’ironia, cfr. Matteo Columbo, Teatro di violenza e dell’assurdo, in «Duellanti» n. 43, giugno 2008, pp. 8-9.