Approfondimenti

Fantozzi: il primo film della serie (datato 1975) e la tradizione grottesca del cinema italiano

Gli sceneggiatori e il regista sembrano aver voluto compendiare nel lungometraggio in questione e nella maschera comica di Paolo Villaggio più di quindici anni di fantasmi egotistici, patemi prestazionali e conflittualità sociali

Published

on

Gli sceneggiatori e il regista sembrano aver voluto compendiare nel lungometraggio in questione e nella maschera comica di Paolo Villaggio più di quindici anni di fantasmi egotistici, patemi prestazionali e conflittualità sociali della coeva cinematografia italiana grottesca, dalla commedia all’italiana a certo cinema più marcatamente “contestatario” di Marco Ferreri, Marco Bellocchio ed Elio Petri.

Ci riferiamo in particolare a topoi e motivi transtestuali quali:

  • i deliri immaginifici di un desiderio incontinente, ora edonistici e ferini ora anarchico-rivoluzionari, nascosti nel film di Salce dietro il “sintomo”, caratteristico del protagonista eroicomico, dell’umiliazione costante e parossistica di ogni libido oggettuale e dell’immagine propria e pubblica del sé; una pervasiva frustrazione di qualsivoglia godimento e narcisismo personali che, posta in relazione all’egotismo monadico e selvaggio dell’ambiente consumistico narrato, da un lato ne sottolinea le possibili fragilità e faglie di rottura con forza icastica e spirito eversivo, e dall’altro lato ne riconferma l’influenza culturale e seduttrice sul personaggio di Fantozzi nelle forme per l’appunto di una sollecitazione persistente di un desiderio fantasmatico mai soddisfatto e mai soddisfabile, che finisce per degradare il nostro a un mero “impasto” di pulsioni, inibizioni e conati di estroversione delle sofferenze della carne [1];
  • la fragilissima tenuta prestazionale dei ruoli e delle maschere sociali attribuiti all’individuo e le derive nell’assurdo dei nuclei simbolico-produttivi della vita comunitaria (gli istituti fondanti della socialità che garantiscono alla persona la possibilità di attribuire un senso ai propri atti e routine) [2], tematizzate in Fantozzi con la subordinazione del soggetto consumista e piccolo-borghese a un insensato e tirannico ordine di “segni” che ne decretano l’infelicità anziché il benessere (status-symbol e contesti di ruolo o di espressione come famiglia, impiego e attività ricreative nel tempo libero, convertiti in inferni coattivi e ingestibili del corpo e dello spirito).

Il film, al contempo, nella sua dimensione più schiettamente metalinguistica (un saggio sulle metamorfosi del “senso del comico” in incipiente epoca neotelevisiva, che riflette, per l’appunto in chiave metalinguistica, sui dispositivi della comicità meno sofisticati e più conformistici messi in scena in quest’opera così gravida di malessere e di dissidenza socio-politico-ideologica: ci riferiamo in particolare alle umiliazioni pubbliche del personaggio di Fantozzi inanellate sequenza dopo sequenza e considerate di per se stesse quali comportamenti non rispondenti a canoni dati) si propone come una riflessione straniante sul “riso” quale dispositivo culturale pilotato ad hoc da media e diktat consumistici, agente di rimozione della violenza e della conflittualità insite nella società nostrana.

Francesco Di Benedetto

[1] Il topos di una mobilitazione ipertrofica e patologica della risorsa psichica e immaginifica del “desiderio” anima secondo Maurizio Grande larga parte del cinema italiano grottesco degli anni ’60 e ’70, assumendo in particolare due forme per certi versi opposte fra loro:

– quella egotistica e consumistica della commedia all’italiana, genere focalizzato per lo più su una soggettività vorace nei confronti dell’ambiente esterno e ostaggio dei propri deliri di onnipotenza rivendicati agli altri al di là di ogni senso di realtà;

– quella anarchica di certo cinema “politico” (da I pugni in tasca di Bellocchio a Todo modo di Petri), laddove la tensione libertaria e immaginifica del desiderio, coniugata a un’esplicita e generalizzata pulsione di morte, mirerebbe a sfigurare e capovolgere ogni ordine dato di codici, di leggi e di Padri.

Cfr. a riguardo Maurizio Grande, La commedia all’italiana, Bulzoni, Roma 2003, e Maurizio Grande, Eros e politica, Protagon Editori Toscani, Siena 1995.

[2] Tematiche riconducibili rispettivamente alla tradizione della commedia all’italiana (rovina del cosiddetto “principio di prestazione” e conseguente vocazione all’auto-diffamazione dell’attore sociale) e alla filmografia di Marco Ferreri degli anni ’60 (collasso del senso profondo attribuito agli istituti e alle risorse simbolici del vivere comune nella follia esponenziale dei personaggi): si veda a riguardo la trattazione ad esse dedicata in Maurizio Grande, La commedia all’italiana, cit.

Commenta
Exit mobile version